mercoledì, Novembre 19, 2025
Società

Il paradosso di Kirk

di Antonio Chizzoniti

Quello con gli studenti della Utah Valley University, a Orem, sembrava un incontro come tanti. Il format era quello già rodato del «Prove Me Wrong Table» — un tavolo di confronto diretto, nel quale il giovane attivista conservatore accettava il dialogo con i suoi critici, spesso provenienti dall’area liberal.

Il principio era semplice: argomentare, discutere, rispondere con calma e logica alle obiezioni. Le registrazioni di questi dibattiti sono circolate ampiamente sui social, diventando virali e offrendo al pubblico una narrazione alternativa rispetto a quella dominante nei campus americani. Per molti, rappresentavano una sfida concreta all’ortodossia della cosiddetta cultura woke, che negli ultimi anni ha conquistato spazio nella politica e nell’opinione pubblica.

Ma qui sta il paradosso. Se il metodo era quello della parola e del confronto, la reazione più estrema non è arrivata attraverso un contraddittorio più serrato, bensì attraverso la violenza fisica. Un giovane di ventidue anni, Tyler Robinson, ha scelto di interrompere quel dialogo con la forza delle armi, privando una famiglia del marito e del padre, e togliendo la vita a chi, nel bene o nel male, si era fatto portavoce di una comunità politica.

Ed è qui che nasce la domanda: chi è davvero il “fascista”? Da decenni, nel dibattito pubblico americano ed europeo, il termine viene usato come arma retorica contro gli avversari conservatori. Ma se prendiamo alla lettera i tratti che definiscono l’autoritarismo — intolleranza verso il dissenso, disprezzo del pluralismo, ricorso alla violenza per mettere a tacere chi la pensa diversamente — allora il quadro si complica. Non è forse proprio l’omicidio politico l’espressione massima di quella stessa mentalità che si vorrebbe combattere?

Non si tratta di assolvere un’ideologia né di negare che il fascismo storico sia stato un regime totalitario e violento. Si tratta piuttosto di interrogarsi sul perché, tra i tanti fantasmi del Novecento, si evochi con tanta frequenza proprio quello fascista, come se fosse un’etichetta buona per ogni uso. Ma a forza di ripetere che chiunque non si allinei sia un “fascista”, non si rischia forse di banalizzare il termine e, al tempo stesso, di giustificare reazioni sproporzionate e persino letali?

Il vero paradosso è questo: nel nome della lotta al fascismo, si finisce col riprodurre le stesse logiche che si dice di voler estirpare. Il silenzio imposto con la minaccia, la delegittimazione sistematica dell’avversario, l’idea che alcuni pensieri non debbano nemmeno avere diritto di parola. Così, chi nasce come “antifascista” rischia di diventare specchio del nemico che odia.

La morte di Kirk ci costringe a guardare in faccia questa contraddizione. Perché se il criterio per riconoscere un fascista è la sua incapacità di dialogare e la propensione alla violenza, allora la domanda da porre è “chi si comporta davvero da fascista?”.

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