mercoledì, Maggio 14, 2025
Politica

L’attività cinese nella Repubblica Democratica del Congo e l’inserimento dell’intelligence economica nel tessuto congolese

Analisi di Francesco Zangara

 

1.1 Le radici storiche delle relazioni sino-congolesi

 Le relazioni tra la Cina e la Repubblica Democratica del Congo (RDC) hanno radici profonde, risalenti alla Guerra Fredda, e si sono ufficialmente ristabilite nel 1972 dopo un decennio di interruzione. Da allora, la “storica amicizia” si è progressivamente rafforzata, con Pechino e Kinshasa che dichiarano reciproco sostegno sui rispettivi interessi fondamentali1. Negli ultimi anni i legami politici ed economici si sono ulteriormente intensificati, complici i crescenti investimenti cinesi nel settore minerario congolese e la volontà di Kinshasa di attirare capitali stranieri per lo sviluppo infrastrutturale2.

Un importante sviluppo diplomatico recente è stata la visita di Stato del presidente congolese Félix Tshisekedi in Cina a fine maggio 2023. In quell’occasione Tshisekedi ha incontrato il presidente Xi Jinping e altre alte cariche cinesi per consolidare la cooperazione bilaterale e riesaminare gli accordi economici chiave3. La missione ha segnato l’avvio di una nuova fase nelle relazioni, ponendo l’accento sulla necessità di “fondare su basi sane” i rapporti con la Cina e “riequilibrare” i vecchi accordi ritenuti sfavorevoli alla RDC. Durante la visita, infatti, Kinshasa e Pechino hanno gettato le basi per rivedere lo storico accordo minerario Sicomines (del valore di 6 miliardi di dollari) e firmare nuovi protocolli d’intesa commerciali. Tali mosse segnalano la volontà congolese di ottenere termini più equi, senza però compromettere l’importante partenariato con la Cina. Dal canto suo, Pechino ha ribadito che la RDC è un paese importante in Africae che la cooperazione bilaterale ha dato frutti considerevoli– un chiaro segno dell’interesse strategico cinese a mantenere salda l’alleanza4.

Un ulteriore elemento di novità è la contestuale strategia di diversificazione diplomatica perseguita dalla RDC. Pur restando la Cina un partner di prim’ordine, il governo Tshisekedi ha mostrato apertura verso altri attori internazionali nel settore minerario. Ad esempio, negli ultimi due anni Kinshasa ha stretto accordi di investimento minerario con paesi come Emirati Arabi Uniti, India e Unione Europea, segnalando che la RDC è pronta a diversificarei propri partner5. Ciò indica un approccio più equilibrato: la leadership congolese cerca nuove collaborazioni senza allontanarsi da Pechino, che rimane fondamentale. In sintesi, le relazioni sino-congolesi al 2024-2025 sono caratterizzate da continuità nella cooperazione ma anche da un’azione diplomatica congolese più assertiva, volta a rinegoziare gli accordi esistenti e a massimizzare i benefici nazionali mantenendo al contempo i tradizionali legami di amicizia con la Cina.

 

1.2  Il  paradigma  della cooperazione infrastrutture-per-risorse: il caso Sicomines

 L’accordo Sicomines – spesso definito il contratto del secolo– è il fulcro della presenza economica cinese in RDC. Siglato nel 2008 sotto la presidenza Kabila, prevedeva la creazione di una joint venture mineraria sino-congolese (Sicomines) in cui un consorzio di imprese cinesi (guidato da Sinohydro e China Railway Group) otteneva il 68% delle quote in cambio di massicci investimenti infrastrutturali per la RDC6. In pratica, il consorzio cinese avrebbe sfruttato ricchi giacimenti di rame e cobalto nel Katanga, finanziando contestualmente 3 miliardi di dollari in opere pubbliche (strade, ponti, ospedali) nel paese7. Il progetto, dal valore complessivo iniziale di circa 6-9 miliardi US$, venne salutato come emblematico della cooperazione “win-win” tra Cina e Africa8.

Si constata che, a quindici anni dalla firma, il progetto Sicomines presenta un saldo largamente ambivalente. Da un lato esso ha effettivamente avviato l’estrazione di rame e cobalto, contribuendo ai volumi esportati dalla Repubblica Democratica del Congo; dall’altro, i dati ufficiali mostrano un marcato scarto tra gli impegni presi e i risultati conseguiti. L’ispezione della Inspection Générale des Finances, pubblicata nel 2023, certifica che il consorzio ha destinato appena 822 milioni di dollari su tre miliardi promessi alle opere civili, giudicando “clamorosamente basso” tale livello di spesa rispetto agli impegni originari. Le contestazioni si innestano su una più ampia questione di opacità: un rapporto del Carter Center aveva già rilevato nel 2017 l’impossibilità di giustificare l’utilizzo di 685 milioni di dollari su 1,16 miliardi allocati alle infrastrutture, alimentando sospetti di cattiva gestione e corruzione9.

Parallelamente, la struttura societaria continua a riservare il 68 per cento delle quote e il controllo operativo alle imprese cinesi, lasciando a Gécamines una partecipazione minoritaria del 32 per cento e un margine di intervento limitato sulla governance del giacimento, mentre generose esenzioni fiscali e doganali riducono l’impatto immediato sulle entrate pubbliche congolesi10. Nel discorso pubblico interno cresce, perciò, la percezione che i benefici dell’accordo ricadano in misura sproporzionata sulla parte cinese, mentre la lentezza nell’esecuzione delle opere promesse – strade, ospedali, reti elettriche – limita i ritorni socio-economici per la popolazione e incrina la fiducia originariamente riposta nel modello infrastrutture-per-risorse11. In tale contesto, si moltiplicano le pressioni politiche e della società civile per una rinegoziazione che ristabilisca trasparenza, proporzionalità dei vantaggi e coerenza con l’interesse nazionale congolese.

Di fronte a queste criticità, già dal 2019–2020 il nuovo governo Tshisekedi ha iniziato a mettere in discussione l’accordo Sicomines, definendolo profondamente iniquoverso la RDC. Nel 2021 è stata avviata un’analisi interna e nel 2022 l’IGF ha pubblicato un rapporto dettagliato evidenziando numerose anomalie e raccomandando di rinegoziare i termini dell’intesa12. Questa pressione ha portato, nel 2023, alla costituzione di una commissione ad hoc congolese (coinvolgente Presidenza, governo, Gécamines, auditor statale e società civile) incaricata di consolidare la posizione negoziale della RDC13.

Le conclusioni della commissione, contenute in un documento riservato visionato da Reuters, proponevano modifiche sostanziali: aumentare la quota azionaria congolese in Sicomines al 70% (dal 32% attuale), raddoppiare i finanziamenti infrastrutturali da 3 a 6 miliardi USD, e ottenere un indennizzo di 2 miliardi USD per compensare passate perdite e la vendita sottocosto di minerale ai cinesi. Tali richieste riflettevano la volontà di rendere più equo l’accordo a favore del Congo”14.

In seguito a negoziati non facili, nel gennaio 2024 il governo congolese ha annunciato di aver raggiunto un nuovo accordo quadro con i partner cinesi di Sicomines. I punti salienti della rinegoziazione includono: mantenimento delle quote societarie invariate (68% ai cinesi, 32% a Gécamines) ma con l’impegno delle aziende cinesi a investire fino a 7 miliardi di dollari in progetti infrastrutturali nel paese – più del doppio di quanto previsto originariamente. Inoltre, i partner cinesi (Sinohydro e China Railway) hanno accettato di versare al governo congolese una royalty annua pari all’1,2% del fatturato15. Questo compromesso – definito un accordo win-windall’ispettorato finanziario congolese – riconosce in parte le istanze di Kinshasa (maggiore investimento e una nuova fonte di entrate fiscali) senza però stravolgere l’assetto societario come inizialmente auspicato da Tshisekedi. Va notato che Sicomines resta esente da altre imposte, elemento che continua a suscitare perplessità tra gli attivisti anti-corruzione. Secondo fonti ufficiali16, l’accordo riveduto dovrebbe garantire alla RDC quasi 4 miliardi di benefici aggiuntivi rispetto al vecchio, con effetti potenzialmente trasformativi per l’economia locale dato che 7 miliardi USD di nuovi investimenti infrastrutturali equivalgono a circa la metà del budget statale annuale congolese.

Nonostante questi miglioramenti, permangono criticità e dubbi sulla reale equità del nuovo patto Sicomines. A inizio 2025, a un anno dalla rinegoziazione, una coalizione di ONG congolesi (piattaforma Le Congo n’est pas à vendre, CNPAV) ha denunciato che i termini aggiornati sono ancora fortemente sbilanciati a favore delle aziende cinesi”, stimando in 132 milioni di dollari le perdite per lo Stato congolese nel solo 2024 dovute a clausole sfavorevoli. In particolare, gli attivisti puntano il dito contro meccanismi di pagamento poco vantaggiosi: ad esempio, la nuova intesa prevede che la Cina finanzi 324 milioni USD l’anno in infrastrutture per 20 anni, ma solo se il prezzo del rame rimane sopra 8.000 $/tonnellata17. Ciò significa che in caso di calo dei prezzi dei metalli la RDC potrebbe “ricevere di meno, se non nulla”, mentre in caso di rialzo oltre $12.000/ton il contributo cinese resterebbe plafonato a 324 milioni, impedendo al Congo di beneficiare dei boom di mercato. Questa struttura rigida “continua a penalizzare il paese” perché trasferisce il rischio di prezzo sul governo congolese e ne limita i guadagni potenziali. Problemi di trasparenza permangono inoltre sull’implementazione del nuovo accordo: organizzazioni come Global Witness sostengono che le revisioni “non colmano gli squilibri precedenti” e chiedono la pubblicazione integrale dei contratti e dei flussi finanziari18. In sintesi, Sicomines – pur in fase di aggiustamento – resta un accordo sotto stretta osservazione da parte della società civile, considerato un banco di prova della capacità della RDC di negoziare in modo trasparente e ottenere reali benefici dalle proprie risorse strategiche

 

 

1.3  Il  ruolo strategico della RDC per la Cina nell’approvvigionamento di materie prime

 La Repubblica Democratica del Congo occupa una posizione di rilievo strategico nelle catene di approvvigionamento globali di materie prime, in particolare per la Cina. Il sottosuolo congolese è estremamente ricco di risorse minerarie critiche: il paese produce oltre il 70% del cobalto mondiale ed è il primo produttore africano di rame (nonché il quarto a livello globale)19. Inoltre, la RDC possiede significative riserve di litio, coltan (columbite-tantalite), stagno, tungsteno, oro e altri minerali strategici impiegati nell’alta tecnologia e nella transizione energetica. Si stima ad esempio che le risorse naturali non sfruttate della RDC valgano complessivamente circa 24 mila miliardi di dollari, un tesoro che fa gola alle potenze industriali mondiali.

Per la Cina, seconda economia del pianeta con un’enorme base manifatturiera, assicurarsi l’accesso a queste materie prime è una priorità strategica. Pechino domina le filiere globali di raffinazione di minerali come cobalto, rame, litio, terre rare etc., essenziali per produrre batterie ricaricabili, veicoli elettrici, elettronica di consumo e infrastrutture per le energie rinnovabili20. In particolare, la domanda cinese di cobalto è schizzata alle stelle a causa del boom dei veicoli elettrici – la Cina è il maggior produttore mondiale di batterie EV – e il cobalto è un componente chiave dei catodi. Non sorprende quindi che la quasi totalità del cobalto estratto in RDC finisca in Cina: nel 2021 la RDC ha esportato verso la Cina il 100% del proprio cobalto per un valore di 4,4 miliardi di dollari21. Analogamente, si calcola che circa 90% delle esportazioni minerarie congolesi abbiano come destinazione la Cinar, che funge da centro di raffinazione e smistamento di tali materie prime verso l’industria globale. Questo legame è talmente marcato che il South China Morning Post ha descritto la RDC come “l’epicentro degli investimenti cinesi in Africa”, soprattutto nel settore minerario22.

Oltre che come acquirente, la Cina è presente in forze anche come investitore e operatore diretto nelle miniere congolesi. Dalla metà degli anni 2000, compagnie cinesi – spesso sostenute da banche statali – hanno acquisito quote o controllo in molti dei principali giacimenti di rame e cobalto del paese. Fonti autorevoli indicano che imprese legate a Pechino controllano o detengono partecipazioni in circa 15 delle 17 maggiori miniere di cobalto della RDC23. Giganti come China Molybdenum (che possiede il vasto complesso di Tenke Fungurume), Zijin Mining, Chengtun, CNMC, Huayou Cobalt e altre hanno investito miliardi per assicurarsi una fetta dell’enorme produzione mineraria congolese. Di conseguenza, oggi il settore estrattivo congolese è largamente dominato da società cinesi. Ad esempio, la sola China Molybdenum controlla circa il 40% della produzione di cobalto della RDC tramite le miniere di Tenke Fungurume e Kisanfu, mentre Sicomines (Cina) e Glencore (Svizzera, ma in joint venture con società cinesi) coprono gran parte del restante24.

Questa forte dipendenza reciproca ha risvolti strategici per entrambe le parti. Per la Cina, la RDC rappresenta una fonte insostituibile di “minerali di transizione” (cobalto, rame, litio) necessari a sostenere sia la propria crescita industriale sia gli obiettivi globali di energia pulita che lo sviluppo tecnologico e militare. Garantirsi materie prime congolesi significa per Pechino mitigare i rischi di strozzature nell’offerta e consolidare la propria posizione dominante nelle filiere di produzione di beni ad alta tecnologia (dalle auto elettriche ai pannelli solari)25. Di contro, per la RDC il partenariato con la Cina offre accesso a capitali, infrastrutture e mercati di sbocco, ma solleva anche timori di eccessiva concentrazione delle esportazioni verso un unico paese e di sfruttamento neocoloniale. Accuse di sfruttamento non mancano: organizzazioni internazionali hanno documentato violazioni ambientali e dei diritti umani legate ad alcune operazioni minerarie cinesi in Africa. Nel 2021-2022 sono stati segnalati 102 casi di abusi (dall’inquinamento alle violazioni dei diritti dei lavoratori e delle comunità locali) associati ad investimenti cinesi in minerali per l’energia pulita in 18 paesi, con la RDC tra i più coinvolti26. Tali problemi si inseriscono in un contesto di governance debole, rendendo complicato per il Congo massimizzare i benefici delle sue risorse evitando al contempo impatti negativi.

In definitiva, la RDC riveste per Pechino un ruolo strategico duplice: è al tempo stesso fonte critica di risorse indispensabili alla sicurezza economica cinese e terreno di investimento dove la Cina può esercitare influenza e consolidare la propria presenza in Africa. Questa centralità della RDC nello scacchiere delle materie prime spiega perché la Cina sia disposta a investire ingenti somme in progetti come Sicomines e a sostenere a lungo termine il partenariato con Kinshasa. Si può notare che Pechino consideri la stabilità del flusso di minerali dalla RDC una questione di interesse nazionale strategico, paragonabile per importanza alla sicurezza energetica. Allo stesso tempo, per la RDC la sfida è passare da semplice fornitore di materie prime a protagonista attivo della filiera (ad esempio sviluppando capacità di trasformazione locale), in modo da catturare maggior valore aggiunto. Questo obiettivo è perseguito oggi anche con l’aiuto di partner occidentali – ad esempio gli Stati Uniti e l’UE sostengono iniziative per costruire impianti di raffinazione in loco e corridoi logistici alternativi (come il Lobito Corridor verso l’Angola) per ridurre la dipendenza congolese dalla Cina27. In sintesi, il legame sino-congolese nel campo minerario è al contempo un’opportunità e una fonte di tensioni: un’opportunità di sviluppo per la RDC e di sicurezza risorse per la Cina, ma anche motivo di competizione geopolitica e dibattito sulla sostenibilità e l’equità di tale modello estrattivo.

1.4   Rinegoziazioni dei contratti minerari e impatto su governance e accountability nella RDC

 Negli ultimi anni la RDC ha intrapreso un percorso deciso di revisione dei contratti minerari siglati in passato, con l’obiettivo di correggere squilibri, aumentare la trasparenza e assicurare che la gestione delle risorse naturali avvenga nell’interesse nazionale. Questa svolta rientra in una più ampia strategia di resource nationalism “soft” adottata dal presidente Tshisekedi, il quale ha esplicitamente promesso di rinegoziare i contratti esistenti per migliorarne i termini a favore del Congo28. Tale impegno ha implicazioni profonde sulla governance del settore estrattivo congolese e sulla accountability (responsabilizzazione) sia delle controparti estere che delle istituzioni locali coinvolte.

Un primo risultato tangibile è stata proprio la rinegoziazione dell’accordo Sicomines descritta in precedenza, che rappresenta un caso emblematico. Il fatto stesso che un grande accordo con partner cinesi sia stato riaperto e modificato – un processo definito “senza precedenti” per un paese africano nelle relazioni con la Cina29 – segnala un cambiamento di approccio. La RDC ha dimostrato maggiore assertività contrattuale, supportata dal lavoro di organi di controllo interni come l’IGF e dalla pressione della società civile. Durante la revisione di Sicomines, il governo ha incluso attori chiave di vigilanza: ispettori finanziari, consiglieri presidenziali, giuristi statali e ONG hanno collaborato nella commissione negoziale30, assicurando un’analisi rigorosa e multilaterale dell’accordo. Questo modus operandi più trasparente e partecipativo è un segnale positivo di rafforzamento istituzionale, in netto contrasto con l’opacità che circondava le negoziazioni originali del 2008. Inoltre, l’adesione della RDC all’Iniziativa per la Trasparenza delle Industrie Estrattive (EITI) sta dando frutti: i rapporti EITI hanno portato  alla luce dati fondamentali  (come i  versamenti effettivi di  Sicomines), informando il processo decisionale31. Lo stesso EITI ha rivendicato un ruolo nel contribuire a “più che raddoppiare il valore” del progetto Sicomines grazie alle informazioni divulgate, che hanno rafforzato la posizione negoziale congolese32. In prospettiva, l’EITI e gli attori della società civile rimangono vigili per garantire che i nuovi termini vengano attuati correttamente, chiedendo chiarezza e monitorando l’esecuzione delle opere33.

Oltre a Sicomines, il governo ha passato in rassegna altri importanti contratti minerari con investitori esteri, inclusi quelli con aziende cinesi. Un caso rilevante è stata la disputa sulla miniera di Tenke Fungurume, uno dei più ricchi giacimenti di rame- cobalto gestito dalla cinese CMOC (China Molybdenum) in joint venture con Gécamines. Nel 2022, Gécamines accusò CMOC di sotto-dichiarare le royalties dovute e un tribunale congolese nominò un amministratore temporaneo bloccando le esportazioni 34. Dopo mesi di impasse, nell’aprile 2023 è stato raggiunto un accordo: la società cinese e la controparte statale hanno trovato un “consenso win-win” sul pagamento delle royalty arretrate, permettendo la ripresa delle attività. I dettagli finanziari non sono pubblici, ma un consigliere presidenziale ha indicato che la nuova intesa dovrebbe portare “circa 2-3 miliardi di dollari” aggiuntivi nelle casse Anche in questo frangente, dunque, la linea di Tshisekedi di difendere gli interessi erariali ha prodotto risultati concreti, laddove in passato la RDC avrebbe forse evitato lo scontro legale con un colosso straniero35.

Parallelamente, la società mineraria statale Gécamines ha annunciato l’intenzione di rinegoziare i termini di varie joint venture con partner internazionali (cinesi e non). Forte dell’appoggio politico, Gécamines mira in particolare a revisione delle clausole di vendita del minerale: vuole assicurarsi il diritto di acquistare quote proporzionali di rame e cobalto estratti, in linea con la sua partecipazione azionaria, anziché lasciare tutto il prodotto nelle mani dell’operatore straniero36. Ciò aumenterebbe la trasparenza commerciale e il controllo del Congo sul destino dei suoi minerali, migliorando al contempo i ricavi per l’azienda statale.

Si osserva che il processo di rinegoziazione ha prodotto effetti tangibili sul piano della governance e dell’accountability. L’Inspection Générale des Finances, affiancata da apposite commissioni interministeriali, ha assunto un ruolo proattivo nell’audit dei contratti, quantificando perdite stimate in oltre sette miliardi di dollari per l’erario e fornendo così una base documentale che ha dato ai negoziatori la forza di pretendere investimenti aggiuntivi dal consorzio Sicomines37. La diffusione di tali dati ha alimentato un dibattito pubblico inedito: grazie a ONG, media e iniziative parlamentari, questioni un tempo circoscritte agli addetti ai lavori sono divenute di dominio collettivo, come dimostra la campagna «Le Congo n’est pas à vendre», che ha costretto i decisori ad argomentare la convenienza di ogni nuovo accordo e ha mantenuto alta l’attenzione sugli impegni effettivamente onorati dai partner cinesi38. In parallelo, le condizioni contrattuali hanno registrato un progressivo miglioramento: l’emendamento dell’accordo Sicomines prevede miliardi supplementari in opere infrastrutturali e nuove royalty a favore dello Stato, mentre la revisione dell’intesa su Tenke comporta il pagamento di cospicui arretrati, segnali che indicano una redistribuzione più equilibrata dei benefici economici39. Contestualmente, l’applicazione rigorosa delle norme interne — si pensi al blocco delle esportazioni imposto agli operatori inadempienti — manifesta la volontà della RDC di far valere i propri diritti contrattuali, rafforzando lo stato di diritto nel comparto minerario e inviando un messaggio dissuasivo contro prassi elusive. Tale evoluzione, se consolidata, potrà attrarre investitori più qualificati, limitare la corruzione e, mediante maggiori risorse pubbliche, tradursi in servizi alla cittadinanza, con ricadute positive sulla legittimazione del governo.

Detto questo, le sfide restano notevoli. La lunga durata e complessità dei contratti minerari fa sì che i cambiamenti siano lenti e che alcuni aspetti opachi permangano. La piena trasparenza, ad esempio, non è ancora raggiunta: non tutte le clausole rinegoziate sono state rese pubbliche, e l’effettiva implementazione degli impegni cinesi dovrà essere verificata anno dopo anno. La accountability dovrà tradursi in monitoraggio costante: strutture come la commissione mista di supervisione RDC-Cina (create per seguire gli accordi di cooperazione) devono funzionare efficacemente e riferire sui progressi. Anche la volontà politica interna sarà cruciale: con le elezioni del dicembre 2023, la conferma di Tshisekedi ha dato continuità alla linea di “nazionalismo delle risorse” seppur moderato40, ma qualunque governo futuro dovrà mantenere l’impegno di assicurare che i contratti minerari servano gli interessi del popolo congolese.

In conclusione, la RDC sta cercando di invertire la dinamica storica che la vedeva cedere risorse strategiche in cambio di benefici incerti. Rinegoziando gli accordi con partner potenti come la Cina, il paese sta mettendo alla prova la propria capacità di governare in modo sovrano il settore estrattivo, migliorandone la trasparenza e l’equità. Questo processo, sostenuto da organismi di controllo e dalla pressione civile, è essenziale per rafforzare la governance in uno Stato ricchissimo di risorse ma con istituzioni tradizionalmente deboli. L’esito non è scontato: la Cina, pur adeguandosi tatticamente ad alcune richieste (come mostra il caso Sicomines), continuerà a difendere i suoi interessi; starà alla leadership congolese mantenere alta l’attenzione su accountability e buon governo, affinché le risorse minerarie diventino davvero un volano di sviluppo e non più una “maledizione” sfruttata da attori esterni. Le fonti analizzate indicano che il percorso è avviato ma occorreranno costanza e trasparenza per assicurare che i “nuovi accordi” siano effettivamente rispettosi dell’interesse nazionale congolese41. In definitiva, le relazioni Cina-RDC all’alba del 2025 si fondano ancora su una forte complementarità strategica – minerali in cambio di investimenti – ma stanno evolvendo verso modelli più equilibrati e scrutinati, in linea con una crescente maturità politica della RDC nel gestire il proprio immenso patrimonio minerario.

1.5  Evoluzione recente delle relazioni economiche sino-congolesi (2024-2025)

Parallelamente alla rinegoziazione dei contratti esistenti, il periodo 2024-2025 vede un ulteriore incremento degli investimenti cinesi nel settore minerario congolese. Nonostante le tensioni diplomatiche sorte attorno al riesame degli accordi, la Cina rimane il principale attore straniero nell’industria estrattiva della RDC e, anzi, consolida la propria presenza. Si stima che dal 2012 ad oggi le imprese cinesi abbiano investito almeno 8 miliardi di dollari nell’industria mineraria congolese, concentrandosi soprattutto sui ricchi giacimenti di rame e cobalto nelle province di Lualaba e Haut- Katanga42. Colossi come China Molybdenum (CMOC), Zijin Mining, Sinohydro e China Railway Engineering Corporation – spesso in joint-venture con la compagnia statale congolese Gécamines – hanno ampliato le proprie operazioni esistenti o acquisito nuovi asset strategici. Ad esempio, China Molybdenum, già presente con una partecipazione maggioritaria nella gigantesca miniera di Tenke Fungurume, nel 2023 ha raggiunto un accordo transattivo con Gécamines per porre fine a un contenzioso sui diritti di royalty: l’azienda cinese ha accettato di versare circa 800 milioni di dollari immediatamente e fino a 2 miliardi complessivi nei prossimi anni al partner congolese, consentendo la ripresa delle esportazioni di rame e cobalto da uno dei più grandi giacimenti al mondo43. Tale intesa non solo ha sbloccato la produzione rimasta in stallo durante la disputa legale, ma ha anche gettato le basi per investimenti aggiuntivi volti ad incrementare la capacità estrattiva del sito44. Allo stesso modo, altre multinazionali cinesi hanno intensificato la loro presenza: la Zijin ha avviato nuovi progetti auriferi e nel settore del litio, mentre consorzi cinesi minori si sono aggiudicati concessioni per minerali strategici emergenti, consolidando il peso di Pechino nell’economia mineraria congolese45. Nel complesso, oggi si calcola che oltre il 70% del portafoglio minerario della RDC sia controllato – direttamente o indirettamente – da imprese cinesi, includendo nelle stime sia le operazioni industriali formali sia la filiera d’acquisto dell’estrazione artigianale di minerali come il cobalto46. La Cina è dunque emersa come partner economico dominante: Pechino è il primo acquirente delle esportazioni congolesi (per un valore di circa 15,6 miliardi di dollari annui, pari a oltre il 40% del totale export della RDC) e al contempo uno dei principali fornitori di beni di consumo e attrezzature al mercato congolese. Questa interdipendenza commerciale sbilanciata – con la RDC fornitrice di materie prime e la Cina esportatrice di capitali e manufatti – costituisce il perno delle relazioni economiche sino-congolesi contemporanee.

Sul fronte delle reazioni interne e internazionali, l’evoluzione recente ha suscitato commenti eterogenei. Da un lato, Kinshasa rivendica il successo nel riequilibrare i termini della cooperazione economica: figure di spicco come il ministro delle Finanze Nicolas Kazadi e l’Ispettore Generale Jules Alingete hanno pubblicamente evidenziato la “nuova era” nei rapporti con la Cina, in cui i partner cinesi dovranno contribuire in misura maggiore allo sviluppo locale, ad esempio costruendo strade e infrastrutture sociali promesse e finora parzialmente inadempiute47. Dall’altro lato, Pechino mantiene un approccio diplomatico cauto ma interessato a conservare la sua posizione privilegiata: durante la visita ufficiale in Cina nel maggio 2023, il Presidente Tshisekedi ha ottenuto rassicurazioni sulla continuità dei flussi di investimento, a patto di una risoluzione amichevole delle controversie contrattuali48. In sostanza, la recente evoluzione delle relazioni economiche sino-congolesi è caratterizzata da una dialettica tra assertività congolese e pragmatismo cinese. Pur a fronte di un lieve raffreddamento politico dovuto alle rivendicazioni di Tshisekedi, il partenariato economico non è affatto arretrato; al contrario esso appare in via di maturazione, fondato su basi più solide di reciprocità e trasparenza. Le imprese cinesi continuano ad accaparrarsi concessioni minerarie e a iniettare capitali nel paese, ma sotto uno scrutinio congolese accresciuto e con maggiori aspettative di responsabilità sociale. Resta da vedere se queste correzioni basteranno a trasformare il modello sino-congolese in un volano autentico di sviluppo per la RDC, ponendo fine alle distorsioni del passato, oppure se i profondi squilibri strutturali accumulati in precedenza continueranno a condizionare negativamente tale relazione economica. Ciò introduce direttamente il tema del coinvolgimento cinese nei conflitti locali e nelle dinamiche della “risorsa maledetta”, nonché la natura dell’assistenza allo sviluppo fornita da Pechino – aspetti cruciali per comprendere la complessità della presenza cinese in Congo.

1.6      La partecipazione cinese al conflitto congolese: tra risorsa maledetta e geopolitica

 L’abbondanza di rame, cobalto, oro, coltan e diamanti colloca la Repubblica Democratica del Congo (RDC) fra i casi paradigmatici di resource curse: la ricchezza mineraria funge contemporaneamente da motore di crescita potenziale e da carburante dei conflitti armati49. Negli ultimi due decenni la Cina, divenuta primo partner estrattivo di Kinshasa, ha assunto un ruolo intrinsecamente ambivalente. Ufficialmente Pechino continua a proclamare il principio di non-ingerenza, ma la presenza capillare di compagnie e cercatori cinesi nei distretti orientali la rende, suo malgrado, parte in causa nelle dinamiche violente che attraversano il paese.

In Sud Kivu, nel 2021, il governatore provinciale sospese le attività di più società cinesi accusate di estrazione aurifera illegale a Mwenga; l’ambasciata cinese intervenne invitando i connazionali al rispetto delle leggi locali50. Nonostante tali ammonimenti, episodi analoghi si sono ripetuti: nel 2023 un tribunale militare di Bukavu ha condannato tre cittadini cinesi a sette anni di reclusione per sfruttamento clandestino dell’oro51; nel dicembre 2024 le forze dell’ordine congolesi hanno arrestato altri diciassette operatori cinesi sorpresi a scavare in un’area protetta dell’Ituri52. Questi casi mostrano come la linea fra attività lecite e traffici illegali si faccia evanescente in contesti di governance fragile, con ricadute dirette sulle tensioni armate: milizie locali tassano i minatori abusivi, convertendo i proventi in armi e logistica bellica.

L’effetto boomerang di tale intreccio si è manifestato ad esempio nell’attacco del novembre 2021 in Ituri, costato la vita a quattro tecnici cinesi. La reazione ufficiale di Pechino – “grave preoccupazione” e richiesta di maggiore protezione per i propri cittadini53 – segnala l’emersione di un nuovo dossier bilaterale di sicurezza che complica l’immagine di partner puramente economico. Da un punto di vista analitico, la partecipazione cinese appare dunque “inestricabilmente mediata” dalla resource curse: priva di un impegno militare diretto, ma esposta alle ricadute di un’economia della violenza che essa stessa contribuisce a nutrire con la domanda di minerali strategici.

Su un piano teorico, la letteratura afrocentrica sottolinea come gli attori esterni – inclusa la Cina – tendano a perpetuare l’assetto estrattivista anziché trasformarlo54. E. Nichols55 spinge oltre la critica, sostenendo che un modesto livello di instabilità avvantaggi gli investitori stranieri, poiché un governo debole concede licenze a condizioni più favorevoli. Nondimeno la responsabilità resta diffusa: compagnie occidentali, trafficanti regionali e reti criminali globali co-producono l’economia di guerra. Dal canto suo, Pechino – consapevole del rischio reputazionale – ha aderito a iniziative internazionali sulla tracciabilità dei minerali e ha emanato linee guida di responsabilità sociale per le proprie imprese all’estero56. Finché però il modello di sviluppo resterà incentrato sull’esportazione di materia prima grezza, sarà arduo per la RDC sfuggire al paradigma della maledizione: la presenza cinese costituisce una lente privilegiata per osservare se un attore emergente replichi prassi storiche di sfruttamento o possa guidare una transizione verso filiere più eque.

In sintesi, l’ingaggio cinese nel conflitto congolese è eminentemente collaterale: operatori cinesi figurano tanto fra le vittime quanto, talora, fra i facilitatori delle reti di saccheggio. Sul piano discorsivo, Pechino diventa bersaglio di un dibattito che la accusa di neo-colonialismo minerario; sul terreno, essa deve calibrare i propri interessi economici con la gestione dei rischi securitari, muovendosi “tra risorsa maledetta e geopolitica”.

1.7  Il modello economico cinese e l’assistenza allo sviluppo in Congo

 Il partenariato sino-congolese incarna la formula “risorse in cambio di infrastrutture” che caratterizza il modello di cooperazione economica proposto da Pechino in Africa57. Il pacchetto lega concessioni su milioni di tonnellate di rame e cobalto alla costruzione di opere pubbliche, finanziate da banche cinesi e rimborsate con i flussi futuri delle esportazioni minerarie.

Cinque settori hanno assorbito la maggior parte dei fondi: energia, trasporti, educazione, salute, miniere. Nel comparto energetico spiccano la centrale idroelettrica Zongo II (inaugurata nel 2018) e i colloqui su Inga III, che testimoniano l’interesse strategico per la generazione idroelettrica. Sul fronte dei trasporti, Sinohydro e China Railway Engineering Corp hanno riabilitato centinaia di chilometri di arterie nazionali e si impegnano a completarne altri 650 entro il 202458. In educazione e sanità, l’Hôpital du Cinquantenaire e la ristrutturazione di padiglioni universitari attestano un soft power che accompagna le grandi opere59. Nel settore minerario, oltre a Sicomines, il progetto Kamoa-Kakula – sviluppato da Zijin con Ivanhoe – consolida la verticalizzazione della filiera sotto controllo cinese60.

L’approccio si definisce olistico, ma condizionato: l’avanzamento dei cantieri dipende dai ricavi del rame esportato. Se ciò riduce il ricorso al debito multilaterale, apre tuttavia a una dipendenza di nuovo tipo. Analisti congolese paventano uno schema di interscambio asimmetrico: la RDC esporta materie prime grezze e importa beni industriali e manodopera cinese, perpetuando una struttura coloniale dell’economia. Sul piano finanziario, la garanzia in minerali impegna volumi futuri di risorse, ipotecando la capacità dello Stato di catturare rendite in prospettiva. Inoltre, l’esecuzione chiavi-in-mano limita il trasferimento di competenze, generando dipendenza tecnologica61.

Kinshasa ha reagito chiedendo maggiore local content e investimenti in raffinazione in loco. Pechino replica che spetta al Congo creare un ambiente di governance idoneo a capitalizzare le opportunità. In definitiva, il modello economico cinese costituisce al contempo chance di ricostruzione rapida e rischio di “dipendenza postcoloniale”. L’esito dipenderà da diversificazione dei partner, trasparenza e investimenti in capitale umano congolese.

1.8  L’intelligence economica come strumento di penetrazione strutturale

 La Repubblica Popolare Cinese adotta un approccio sistemico alla raccolta di informazioni strategiche in Africa, utilizzando l’intelligence economica come leva per una penetrazione strutturale a lungo termine nei paesi partner. Tale approccio integrato vede coinvolti una molteplicità di attori – istituzioni statali, aziende pubbliche e private, canali diplomatici paralleli – tutti coordinati nella prospettiva unitaria degli interessi nazionali cinesi. In altre parole, Pechino impiega la conoscenza approfondita dei contesti locali (dati sulle risorse naturali, sull’economia, sul quadro politico) per orientare le proprie strategie di investimento e cooperazione, assicurandosi un vantaggio competitivo strutturale. Ciò differenzia l’azione cinese da quella di molti paesi occidentali: mentre questi ultimi spesso vincolano gli aiuti a riforme politiche e adottano un approccio intermittente o emergenziale, la Cina opera in maniera coordinata e continuativa, inserendo i propri interventi in una visione di lungo periodo. Si tratta di una strategia volta a costruire radici profonde nelle economie africane, anziché interventi estemporanei, e che pertanto si fonda su un’intelligence capillare del territorio62. Tale modus operandi permette a Pechino di massimizzare i benefici delle proprie iniziative economiche, riducendo al minimo le incognite: conoscere in dettaglio il contesto locale significa infatti poter adattare offerte e accordi alle esigenze (e alle debolezze) del partner africano, garantendo alla Cina un’influenza duratura sulle strutture portanti di quell’economia.

In questo quadro, le imprese statali cinesi (SOE) svolgono un ruolo cruciale come estensione dell’apparato statale nell’opera di raccolta informativa e influenza economica. La legislazione cinese – in particolare la legge sulla sicurezza nazionale e sull’intelligence del 2017 – obbliga ogni organizzazione e cittadino cinese a cooperare con i servizi segreti del Paese, anche all’estero. Ciò implica che società attive nella RDC come la China Railway Engineering Corporation o Sinohydro non siano attori meramente commerciali, bensì ingranaggi di un meccanismo di stato più ampio, pronti a condividere informazioni strategiche con Pechino63. Le aziende cinesi che ottengono concessioni minerarie, contratti infrastrutturali o progetti energetici in Africa fungono così da antenne sul terreno, raccogliendo dati sull’andamento economico, sulle riserve di materie prime e sulla stabilità politica dei paesi ospitanti. Ad esempio, nel celebre accordo Sicomines siglato con la Repubblica Democratica del Congo nel 2007, le imprese di stato cinesi hanno mirato a settori estrattivi chiave (rame, cobalto) ottenendo diritti esclusivi di sfruttamento. Questa mossa – resa possibile anche da un’attenta analisi delle necessità finanziarie congolesi e delle debolezze della concorrenza internazionale – ha consentito a Pechino di posizionarsi come attore indispensabile nello sviluppo dell’economia mineraria tanto da riuscire a controllare le quotazioni del cobalto facendo bloccare ai partner congolesi le esportazioni, così facendo hanno fatto schizzare non solo il prezzo del cobalto ma anche delle azioni delle società minerarie cinesi. In base ai termini dell’accordo, la Cina ha finanziato infrastrutture per miliardi di dollari in cambio di concessioni minerarie a lungo termine, assicurandosi così non solo l’accesso privilegiato a risorse strategiche, ma anche una presenza strutturale nel Paese che potrebbe tradursi in presenza militare vista la politica di espansione militare cinese in Africa, possibilità così concreta che nel febbraio del 2024 il Wall Street Journal lancia l’allarme generando un vasto eco sui media d’oltreoceano.

L’implementazione del deal ha visto attori cinesi – due grandi SOE dei trasporti e delle costruzioni – assumere il controllo diretto sulla pianificazione e costruzione delle opere, integrando di fatto segmenti critici delle infrastrutture congolesi nella sfera di influenza di Pechino64. Questa penetrazione economica strutturale, frutto anche di un’intelligence preparatoria accurata, garantisce alla Cina vantaggi di lungo periodo: controllo sulle filiere estrattive, rendite sicure e la possibilità di dettare standard e condizioni del mercato locale e globale.

Parallelamente alle imprese statali, la Cina sfrutta canali diplomatici “paralleli” e informali per accrescere la propria capacità di raccolta informativa e influenza. Oltre alla tradizionale diplomazia svolta attraverso ambasciate e forum multilaterali (come il Forum on China–Africa Cooperation, FOCAC), esiste un’attiva diplomazia del partito e una rete di contatti personali che coinvolge alti funzionari cinesi, dirigenti di aziende e rappresentanti di istituti di credito statali. Questi emissari spesso agiscono al di fuori dei riflettori, coltivando rapporti diretti con le élite locali e talvolta fungendo da consiglieri ufficiosi presso governi africani. Ad esempio, funzionari del Dipartimento Internazionale del Partito Comunista Cinese intrattengono scambi con i partiti di governo africani, offrendo training e condividendo “esperienze di governance” – attività che, se da un lato rafforzano i legami politici, dall’altro forniscono a Pechino preziose informazioni sulle dinamiche interne di quei regimi65. Anche le comunità cinesi all’estero e le associazioni di espatriati possono diventare fonti indirette di intelligence: la numerosa diaspora cinese in Africa, incoraggiata dallo Stato, spesso include uomini d’affari e tecnici la cui presenza capillare sul territorio consente di conoscere gli umori locali, monitorare le mosse di concorrenti occidentali e segnalare opportunità o criticità emergenti. I servizi cinesi hanno imparato a valorizzare il capitale umano espatriato come risorsa informativa, inquadrando la sua azione in un sistema paese coeso66. In tal modo la distinzione tra operatore economico, emissario politico e agente informativo diventa labile: ogni attore cinese in Africa può, all’occorrenza, contribuire alla raccolta di dati sensibili o al perseguimento di obiettivi strategici del governo centrale.

Questo modello integrato rientra nella più ampia dottrina cinese della “Comprehensive National Power” (CNP), ossia della potenza nazionale comprensiva. La classe dirigente cinese valuta il rango internazionale della Cina in base a un insieme di indicatori che vanno oltre la mera forza militare, includendo fattori economici, scientifico-tecnologici, diplomatici e culturali. Fin dagli anni ’80, perfezionando un concetto nato nei circoli strategici cinesi degli anni ’60, Pechino utilizza il CNP come metrica interna dei progressi nazionali e come riferimento per la competizione sistemica con l’Occidente67. In quest’ottica, ogni risorsa esterna – dalla materia prima alla relazione diplomatica – alimenta la potenza complessiva della nazione e va quindi perseguita attivamente. Il continente africano, ricchissimo di petrolio, minerali strategici e mercati emergenti, è considerato da Pechino una piattaforma di sviluppo ideale per gli interessi cinesi, poiché offre materie prime cruciali per l’apparato produttivo e opportunità per espandere l’influenza politica globale. L’intelligence economica fornisce alla Cina la mappa di queste opportunità e delle relative insidie, consentendole di allocare in modo mirato il proprio enorme surplus finanziario. In tal senso, la raccolta sistematica di informazioni sulla RDC – dalla geologia mineraria all’evoluzione delle élite politiche locali – è funzionale ad aumentare il CNP cinese, assicurando forniture stabili di cobalto e rame (vitali per industrie ad alto contenuto tecnologico) e rafforzando il peso diplomatico di Pechino nel cuore dell’Africa. Non è un caso che Xi Jinping, delineando gli obiettivi nazionali al centenario della RPC (2049), abbia enfatizzato la necessità di “accrescere significativamente la forza economica, le capacità scientifico- tecnologiche e il potere nazionale comprensivo” entro il 2035, per poi fare della Cina una nazione leader mondiale in termini di CNP entro il 2049. L’Africa, e la RDC in particolare, rappresentano tasselli importanti in questa visione: garantendosi una presenza strutturale nelle economie africane attraverso investimenti informati da intelligence mirata, la Cina getta le basi per ampliare la propria sfera d’influenza e consolidare il proprio status di potenza globale. In sintesi, l’intelligence economica per Pechino non è un’attività ausiliaria, bensì uno strumento fondamentale di penetrazione strategica che opera sinergicamente con diplomazia ed economia, guidato dalla massimizzazione del potere nazionale complessivo68.

1.9  Gli strumenti tecnologici del soft power e del controllo informativo

 Lo strumentario tecnologico costituisce un pilastro essenziale della proiezione cinese in Africa, combinando soft power e potenzialità di controllo informativo. Pechino, attraverso le sue aziende leader nel settore ICT, fornisce a molti paesi africani infrastrutture e sistemi avanzati di telecomunicazione – reti in fibra ottica, backbone internet, collegamenti satellitari, fino alle ultime reti mobili 5G – presentandoli come contributi allo sviluppo digitale locale. Questa penetrazione tecnologica comporta però anche implicazioni strategiche: i dispositivi e le reti cinesi possono fungere da mezzo di sorveglianza e raccolta dati su larga scala, alimentando le capacità informative di Pechino. Negli ultimi due decenni la Cina ha progressivamente costruito in Africa una sorta di ecosistema digitale parallelo, offrendo soluzioni chiavi in mano che vanno dai cavi sottomarini ai data center, dai sistemi di videosorveglianza urbana ai servizi di governo elettronico. Ad esempio, colossi come Huawei e ZTE hanno posato reti in fibra ottica in oltre 20 paesi africani, implementando anche dorsali sicure per le comunicazioni governative69. In Africa australe e orientale sono stati realizzati importanti progetti di cavi sottomarini con partecipazione cinese, quali il sistema 2Africa (45.000 km di cavo intorno al continente) e tratte chiave che collegano l’Asia all’Africa passando per il Mar Rosso e il Mediterraneo. Il controllo di segmenti critici dell’infrastruttura di connettività internazionale conferisce a Pechino un potenziale strumento di pressione: come osserva uno studio, essendo la connettività via cavo indispensabile per le economie costiere, i paesi africani rischiano interruzioni o vulnerabilità se adottano politiche sgradite a Pechino70. In altri termini, l’egemonia tecnologica cinese crea una dipendenza digitale che può tradursi, volendo, in leva geopolitica.

Tra gli strumenti tecnologici più significativi esportati dalla Cina vi è il sistema di navigazione satellitare BeiDou, l’equivalente cinese del GPS americano. BeiDou è promosso attivamente in Africa come parte della cooperazione spaziale sino-africana: numerosi paesi (tra cui la RSA, l’Egitto, il Kenya) hanno firmato accordi per utilizzare i servizi di posizionamento BeiDou, beneficiando di una copertura e precisione migliorate nelle comunicazioni e nel telerilevamento. La valenza dual-use di BeiDou è evidente: se da un lato esso consente applicazioni civili (mappatura del territorio, agricoltura di precisione, gestione dei trasporti) e simboleggia il soft power scientifico cinese, dall’altro fornisce ai partner africani uno strumento che li rende potenzialmente dipendenti dalla tecnologia spaziale di Pechino e interoperabile con i sistemi cinesi. Ad esempio, i ricevitori BeiDou installati in infrastrutture critiche potrebbero in futuro essere integrati in una rete di controllo coordinata dalla Cina, offrendo a quest’ultima accesso privilegiato a dati geospaziali sensibili. Inoltre, l’adozione di BeiDou in ambito militare (per comunicazioni cifrate o guida di droni e mezzi) allinea le forze armate africane agli standard cinesi. Nel contesto congolese, sebbene la priorità sia colmare il digital divide di base, non è escluso che l’integrazione di servizi satellitari cinesi – come già avviene in altri stati – possa sollevare interrogativi sulla sovranità digitale: chi controlla i flussi informativi dallo spazio in caso di crisi? La Cina, attraverso BeiDou, si propone come garante tecnologico, ma al prezzo di un’influenza permanente sulle capacità di comunicazione strategica del partner.

Ancora più visibile è la penetrazione delle tecnologie di telecomunicazione 5G cinesi. Huawei, in particolare, ha stretto accordi con numerosi governi africani per la fornitura di infrastrutture 4G e 5G, compresa la costruzione di reti cellulari di ultima generazione. Queste reti ad alta velocità costituiscono la spina dorsale delle future economie digitali africane (servizi finanziari mobile, e-health, smart city, ecc.), ma sono anche al centro delle preoccupazioni occidentali per possibili backdoor di spionaggio. La presenza end-to-end di apparecchiature cinesi – dalle antenne radio ai server di core network – offre infatti ipoteticamente a Pechino la capacità di intercettare traffico dati o interrompere comunicazioni critiche. Documenti riservati hanno suggerito che i fornitori cinesi mantengono accessi privilegiati ai sistemi che installano, in virtù sia di progettazioni opache sia degli obblighi legali verso lo Stato cinese71. In Africa, dove la sicurezza cibernetica non è sempre robusta, l’implementazione diffusa del 5G Huawei/ZTE potrebbe tradursi in un ecosistema informativo pervasivo controllato de facto dalla Cina. Ad Addis Abeba, già nei primi anni 2010, Huawei ha fornito l’intera rete governativa “WoredaNet” dell’Etiopia, che in seguito è stata utilizzata dal governo etiope per monitorare e censurare comunicazioni interne72. La simbiosi tecnologica tra governi africani autoritari e fornitori cinesi crea dunque terreno fertile per un controllo capillare: i regimi locali ottengono strumenti avanzati per sorvegliare opposizione e cittadini; la Cina, parallelamente, guadagna accesso privilegiato ai dati che transitano su quelle piattaforme e rafforza la dipendenza tecnologica dell’alleato. Nel caso congolese, l’espansione delle reti in fibra ottica e mobili grazie a investimenti cinesi è stata salutata come opportunità di sviluppo, ma pone interrogativi sull’autonomia: ad esempio, se Kinshasa dovesse affidare a Huawei la futura rete 5G, i dati governativi e delle imprese strategiche congolesi viaggerebbero su infrastrutture potenzialmente sorvegliabili dal produttore. Il concetto di sicurezza nazionale digitale entra così in gioco: la Cina propone la propria visione di “sovranità cyber”, in cui ogni stato controlla le proprie reti senza ingerenze occidentali, ma di fatto tale paradigma può favorire l’egemonia tecnologica di chi fornisce gli strumenti, ossia Pechino stessa.

Un aspetto emblematico del soft power tecnologico cinese è l’esportazione di sistemi integrati di videosorveglianza e riconoscimento facciale. Programmi di Smart City o Safe City sponsorizzati da aziende cinesi sono stati implementati in varie metropoli africane, dotandole di migliaia di telecamere a circuito chiuso ad alta definizione e software avanzati di analisi biometrica. Ad esempio, Huawei e la start-up CloudWalk hanno installato sistemi di riconoscimento facciale in città come Johannesburg, Nairobi, Kampala e Accra, fornendo alle autorità locali strumenti per identificare criminali o monitorare luoghi pubblici73. Queste soluzioni vengono presentate come migliorie di sicurezza urbana, ma comportano la raccolta massiva di dati sensibili (volti, movimenti, abitudini) di milioni di cittadini africani, spesso senza adeguate tutele sulla privacy. Tali dati, centralizzati in piattaforme spesso gestite con l’ausilio tecnico cinese, rappresentano un patrimonio informativo di enorme valore. Vi è il rischio concreto che essi siano condivisi – ufficialmente o meno – con le aziende fornitrici e, attraverso queste, con le autorità di Pechino, contribuendo a perfezionare gli algoritmi di intelligenza artificiale cinesi. Uno degli obiettivi meno dichiarati di queste esportazioni, infatti, è migliorare le prestazioni dell’IA cinese allenandola su popolazioni diverse da quella han. Nel 2018 fece scalpore l’accordo tra la società CloudWalk di Guangzhou e il governo dello Zimbabwe per una rete nazionale di riconoscimento facciale: in cambio della tecnologia, la Cina avrebbe ottenuto l’accesso ai volti dei cittadini zimbabwiani, utili ad affinare i software nel riconoscere tratti somatici africani74. Mentre Pechino negò ufficialmente qualsiasi uso improprio, per gli attivisti per i diritti digitali l’Africa rischia di diventare un laboratorio a cielo aperto dove la sorveglianza di Stato in stile cinese viene sperimentata e ottimizzata. Per i paesi africani ciò pone un dilemma: da una parte ottenere strumenti moderni per combattere criminalità e terrorismo; dall’altra consegnare a un attore esterno (la Cina) una finestra privilegiata sui propri cittadini e la capacità tecnica di monitorarli. In Congo, dove problemi di ordine pubblico e minacce terroristiche sono concreti, non è impensabile che in futuro si guardi a tecnologie simili – ad esempio per controllare i confini porosi o le aree urbane ad alto tasso di criminalità. Se Kinshasa adottasse un sistema di riconoscimento facciale made in China, dovrebbe però affrontare le implicazioni in termini di diritti civili e sovranità: chi detiene i database biometrici dei congolesi? Come evitare che tali informazioni vengano sfruttate da potenze straniere o dal governo stesso per fini poco trasparenti? Domande analoghe si posero dopo la rivelazione che il quartier generale dell’Unione Africana ad Addis Abeba – costruito e informatizzato dalla Cina – era stato sistematicamente intercettato: per cinque anni, ogni notte, i server dell’UA inviavano copie dei dati a un server remoto a Shanghai, finché la falla non fu scoperta. L’episodio dell’UA, smentito da Pechino come “ridicolo” ma credibile secondo esperti occidentali, evidenzia come hardware e software cinesi possano celare backdoor per l’esfiltrazione di informazioni strategiche75. Di fronte a tali precedenti, l’adozione in Congo di soluzioni come data center, reti e dispositivi di fabbricazione cinese impone serie riflessioni sull’autonomia decisionale: de facto, un’infrastruttura digitale targata Huawei/CloudWalk conferisce al fornitore un potere implicito di controllo. In un mondo in cui i dati sono la nuova ricchezza, consegnare le chiavi delle comunicazioni e dei flussi informativi a un attore esterno potrebbe rivelarsi un compromesso pericoloso per la sicurezza nazionale congolese nel lungo periodo.

Oltre all’hardware, la Cina esporta in Africa anche standard normativi e formazione nel campo digitale, influenzando l’élite locale a seguire il proprio modello di governance di Internet e dei media. Negli ultimi anni Pechino ha promosso iniziative come la Global Initiative on Data Security (2020) e il China-Africa Forum on Cyber Security, proponendo principi di “sovranità digitale” e “ordine cyber internazionale” alternativi a quelli occidentali. Ciò si traduce in programmi di training per funzionari e tecnici africani: migliaia di quadri provenienti da ministeri dell’ICT, compagnie telefoniche statali, forze di sicurezza e media africani sono stati invitati in Cina per corsi sulle politiche di gestione di Internet, sul contrasto alle “minacce informatiche” e sull’uso degli strumenti di sorveglianza digitale76. Durante questi corsi, spesso finanziati nell’ambito di FOCAC, viene veicolata la visione cinese di un cyberspazio controllato: si enfatizza la necessità di controllare le piattaforme online per garantire la stabilità sociale, si illustrano i sistemi di censura e filtraggio dei contenuti utilizzati in Cina (il cosiddetto Great Firewall), e si promuove l’adozione di leggi sulla cybersecurity modellate su quelle cinesi. Ad esempio, secondo un rapporto del 2021, almeno 40 leggi o regolamenti africani in materia di cybercrime e controllo delle reti mostrano influenze dirette della normativa cinese77. Formando le élite africane su propri standard, Pechino ottiene un duplice risultato: da un lato aumenta il soft power – poiché i partecipanti spesso tornano con un’opinione positiva dell’efficienza cinese e della sua tecnologia; dall’altro crea un allineamento normativo che facilita l’uso dei prodotti cinesi (se un paese adotta lo standard di crittografia o le procedure di data retention cinesi, sarà più naturale comprare tecnologia cinese conforme a quegli standard). Un chiaro esempio è la formazione nel settore delle telecomunicazioni: Huawei gestisce programmi come l’Academy ICT e Seeds for the Future, attraverso cui centinaia di giovani ingegneri africani vengono addestrati ogni anno all’uso delle sue apparecchiature e software secondo metodologie cinesi. Analogamente, la formazione di militari e poliziotti africani sulle tecniche di sorveglianza digitale è divenuta parte della cooperazione sulla sicurezza: la Cina ha finanziato centri di addestramento (ad es. a Dar es Salaam, in Tanzania) dove istruttori cinesi insegnano come utilizzare droni, sistemi di intercettazione e piattaforme di analisi dei big data per scopi di sicurezza interna78. Nell’ambito del summit FOCAC 2024, Pechino ha annunciato fondi dedicati alla sicurezza digitale e alla formazione di personale: si prevedono corsi per 1.000 agenti delle forze dell’ordine africane in tecniche di cybersecurity e investigazioni digitali nei prossimi tre anni (Arduino 2024, online). Questi investimenti mostrano come il “modello cinese” di controllo informativo – che unisce innovazione tecnologica e centralizzazione autoritativa – venga proposto ai partner africani non solo con le macchine ma anche con le menti, plasmando una nuova generazione di decisori potenzialmente più inclini a imitare Pechino nella gestione dello spazio informativo nazionale.

Le implicazioni per la sovranità digitale e la sicurezza nazionale congolese sono complesse. Da un lato, la RDC ha un bisogno impellente di colmare il divario tecnologico: infrastrutture di telecomunicazione affidabili, accesso a Internet più ampio, strumenti di sorveglianza per contrastare gruppi armati e cyber-capacità per proteggere istituzioni e aziende dalle minacce informatiche sono tutte esigenze reali. La cooperazione con la Cina offre soluzioni rapide e relativamente economiche in queste aree, senza le condizioni politiche spesso poste dai partner occidentali (come richieste di riforme democratiche o rispetto stringente della privacy). Inoltre, il principio di non interferenza cinese rassicura molti governi africani circa l’assenza di critiche su come tali strumenti verranno utilizzati internamente. Dall’altro lato, affidarsi in modo esteso alla tecnologia cinese può minare l’autonomia del Congo nel lungo periodo. Una volta che le dorsali informative critiche – ministeri, banche, compagnie elettriche, esercito – operano su sistemi cinesi, risulterà molto difficile per Kinshasa diversificare i propri partner o assumere posizioni contrarie agli interessi di Pechino senza temere ripercussioni (ad esempio vulnerabilità informatiche pilotate o mancato supporto tecnico). In uno scenario estremo di crisi diplomatica sino-congolese, la dipendenza dai circuiti digitali cinesi potrebbe tradursi in un vulnerabilità strategica, con il rischio di interruzioni di servizi o atti di cyber-sabotaggio. Anche in assenza di rotture politiche, la posizione di “guardiano” delle informazioni di cui godrebbe la Cina le conferirebbe una sorta di diritto di veto implicito su certe scelte congolesi: ad esempio, la conoscenza approfondita – ottenuta tramite data mining – delle personalità di spicco congolesi potrebbe permettere pressioni discrete o condizionamenti (si pensi a scandali di corruzione scoperti tramite intercettazioni). In definitiva, il “costo nascosto” del soft power tecnologico cinese è una cessione parziale di sovranità nel dominio digitale. Per questo, alcuni esperti africani mettono in guardia: l’Africa deve evitare di passare da una dipendenza all’altra, dall’ex colonialismo politico-economico occidentale a un nuovo colonialismo digitale cinese79. La sfida per la RDC consisterà dunque nel bilanciare i benefici immediati dell’abbracciare le offerte tecnologiche di Pechino con la necessità di preservare uno spazio di autonomia decisionale e protezione dei dati nazionali nel lungo termine. Un utilizzo oculato e trasparente degli strumenti cinesi, accompagnato da quadri normativi locali sulla protezione dei dati e da diversificazione delle partnership (es. collaborazioni anche con aziende europee o lo sviluppo di competenze nazionali), potrebbe mitigare i rischi. In assenza di ciò, la rapida digitalizzazione “made in China” del Congo, pur contribuendo nel breve periodo alla crescita e alla sicurezza, potrebbe evolvere in un ecosistema controllato in cui la linea tra assistenza e ingerenza diventa sempre più sottile.

1.10  La militarizzazione del partenariato: peacekeeping, basi e cooperazione securitaria

 Negli ultimi quindici anni l’evoluzione della politica africana della Repubblica Popolare Cinese ha registrato uno slittamento dal mero protagonismo economico‐infrastrutturale a un coinvolgimento securitario sempre più visibile. Tale svolta, che si articola su piani multilaterale e bilaterale, impone di interrogarsi sul confine, assai labile, fra contributo alla stabilità regionale e progressiva penetrazione strategica.

Un banco di prova emblematico è la base d’oltremare di Gibuti, inaugurata nel 2017: formalmente «support facility» a servizio del peacekeeping ONU e dell’antipirateria, di fatto un avamposto dotato di ormeggi per unità di grande tonnellaggio e di una guarnigione stimata in 1 000–2 000 effettivi80. Secondo un rapporto CNA, l’impianto consente simultaneamente evacuazioni di connazionali, logistica per operazioni di pace e sorveglianza delle rotte marittime81. La presenza di sensori d’intelligence marina e satellitare ne rivela la funzione di piattaforma di monitoraggio dell’intero Corno d’Africa82. L’installazione, percepita da Parigi e Washington come segnale di competizione militare diretta, resta presentata da Pechino come caso eccezionale, benché The Wall Street Journal abbia indicato sopralluoghi cinesi per ulteriori scali navali fra Atlantico e Oceano Indiano83.

L’azione cinese sotto bandiera ONU consolida la dimensione multilaterale del nuovo  corso.  L’80 %  dei  peacekeeper  di  Pechino  opera  oggi  in  Africa (securityanddefence.pl). Dal 1990 oltre 30 000 militari e poliziotti cinesi hanno servito sul continente, divenendo la principale forza asiatica di supporto84. In Sud Sudan la Cina schiera dal 2015 un battaglione di fanteria, mentre nella RDC mantiene dal 2003 un’unità di genieri e sanitari – 220 effettivi nel 2023 – impegnata in ripristino di ponti e cure mediche nelle province kivuane85. Pechino presenta il peacekeeping quale prova di responsabilità globale, sottolineando il contributo finanziario (≈ 15 % del bilancio ONU). Tuttavia, l’attività risponde anche a esigenze proprie: proteggere siti minerari, addestrare l’EPL in scenari operativi reali86, colmare il gap di combat experience e rafforzare lo status di «potenza responsabile». Pechino seleziona con cura le missioni, insistendo sul principio di non-interferenza87; l’atteggiamento assunto durante il dibattito sul ritiro della MONUSCO – sostegno alla sovranità di Kinshasa – conferma la volontà di evitare ruoli politicamente invasivi.

Sul piano bilaterale la Cina è divenuta nell’ultimo quinquennio uno fra i tre maggiori fornitori d’armi all’Africa subsahariana, con il 17–20 % delle importazioni. Nella RDC la svolta è tangibile: tra 2022 e 2023 Pechino ha consegnato 8–9 UAV CH-4; nell’aprile 2025 sono in corso trattative per tre Wing Loong II88. Tali piattaforme, insieme a mezzi corazzati leggeri e sistemi di comunicazione crittografata, legano le FARDC a catene logistiche e formative controllate da CATIC e altre SOE cinesi. Il programma di formazione, annunciato da Xi Jinping al FOCAC 2018 e corroborato dal centro addestrativo per forze speciali inaugurato a Kinshasa nel 2023, accentua tale dipendenza.

L’estensione dell’impronta operativa include fornitura di apparati SIGINT, esercitazioni congiunte, e manovre bilaterali – ad esempio con il Camerun nel 2021. Nel 2022 Pechino ha lanciato la Global Security Initiative, promossa in Africa come paradigma di sicurezza indivisa. Attraverso il Fondo Cina-Africa per la Pace e la Sicurezza la RPC consolida il proprio diritto di tribuna nelle sedi UA.

I governi africani, RDC inclusa, prendo atto dell’assenza di condizionalità politiche occidentali: i droni cinesi arrivano dove Washington teme violazioni dei diritti umani; gli istruttori cinesi addestrano senza imporre riforme. Ciò accresce il soft power di Pechino89. Eppure osservatori di società civile paventano il rischio di «vassallaggio strategico» fondato su manutenzione, munizioni e know-how monopolizzati dalla Cina. Il problema della trasparenza – già emerso per Sicomines90 – si aggrava nel settore difesa, dove clausole segrete potrebbero consentire interventi diretti o condivisione di intelligence sensibile.

Nel caso congolese i vantaggi sono reali: migliori capacità contro il M23, infrastrutture stradali utili alla proiezione statale, supporto all’evacuazione di civili. Tuttavia, l’intreccio fra investimenti minerari, telecomunicazioni e cooperazione militare rischia di rendere Pechino attore imprescindibile, riducendo i margini di manovra di Kinshasa, e alimentando la preoccupazione di Washington, che nel Report to Congress 2022 annuncia programmi di addestramento alternativi per ufficiali africani.

In sintesi, la militarizzazione del partenariato sino-africano possiede due volti. Essa colma deficit di sicurezza e bilancia l’egemonia occidentale, ma può innescare dipendenze strategiche e una competizione fra grandi potenze sul suolo africano. La vera sfida consiste nell’equilibrio: accogliere l’assistenza senza cadere in una nuova forma di subordinazione. Il giudizio finale dipenderà dalla solidità delle istituzioni africane; dove la governance è fragile, la retorica «win-win» rischia di tradursi in leva egemonica. L’analisi comparata suggerisce di monitorare costantemente le pratiche securitarie cinesi, poiché la dottrina della non-interferenza convive ormai con un coinvolgimento militare attivo che ne ridefinisce i contorni91. In definitiva, il dragone ha mostrato artigli anche in campo militare: spetterà ai paesi africani, e alla RDC in primis, decidere se tali artigli fungeranno da scudo protettivo o da morsa vincolante.

 

1 K. COGHILL, Congo leader to visit China this week, minerals trade deal signing expected, in Reuters, 22 maggio 2023.

2 Ibidem.

3 Ibidem.

4 Ibidem.

5 S. LAWAL, Why does DRC want a Ukraine-like minerals deal with Trump, amid conflict?, 17 marzo 2025, consultato telematicamente su https://www.aljazeera.com/news/2025/3/17/amid-conflict-why-does-the-drc- want-a-minerals-deal-with-trump#:~:text=Advertisement.

6 S. ROLLEY, Chinese companies to invest up to $7 billion in Congo mining infrastructure, in Reuters, 27 gennaio 2024.

7 E. LIVINGSTONE, Uncertainties Remain With Renegotiated Chinese Mining Deal in DRC, 26 gennaio 2024, con­sultato telematicamente su https://www.voanews.com/a/uncertainties-remain-with-renegotiated- chinese-mining-deal-in-drc-/7458908.html.

8 S. RAKOTOSEHENO, Sicomines: How the EITI in DRC helped secure 4 billion in additional revenue, 25 marzo 2024, consultato telematicamente su https://eiti.org/blog-post/sicomines-how-eiti-drc-helped-secure-4- billion-additional- revenue#:

9 THE CARTER CENTER, A State Affair: Privatizing Congo’s Copper Sector, novembre 2017, consultato telematicamente su https://www.cartercenter.org/resources/pdfs/news/peace_publications/democracy/congo- report-carter-center-nov-2017.pdf.

10 P. TUNAMSIFU SHIRAMBERE, The Democratic Republic of the Congo-China’s deals on construction of roads in exchange of mines, in Afrika focus, vol. 33, n. 2, 2020, pp. 79-94.

11 D. WALSH-PICKERING, China and the Democratic Republic of Congo: What the Sicomines Agreement Tells Us about Beijing’s Foreign Policy in Africa, in N. ANDREWS, J.A. GRANT, J. SALAH OVADIA (eds), Natural Resource-Based Development in Africa: Panacea or Pandora’s Box?, Toronto, 2022, pp. 305- 326.

12 E. LIVINGSTONE, Uncertainties Remain With Renegotiated Chinese Mining Deal in DRC, cit.

13 S. ROLLEY, Exclusive: Congo to hike stake in copper, cobalt venture with China, in Reuters, 24 maggio 2023.

14 Ibidem.

15 Ibidem.

16 B. MATABISHI, Congo-Kinshasa: DR Congo Mineral Contract With China Slammed By NGOs Citing ‘Major Losses’,2025,consultatotelematicamentesuhttps://allafrica.com/stories/202503070093.html

17 Ibidem.

18 Ibidem.

19 USGS (2022)

20 N. LAKHANI, A. HAWKINS, China accused of scores of abuses linked to ‘green mineral’ mining, in The Guardian, 6 luglio 2023.

21 C. MCGEADY, G. BASKARAN, Resource Nationalism Is Not the United States’ Biggest Minerals Problem, 15 settembre 2023,  https://www.csis.org/analysis/resource- nationalism-not-united-states-biggest-minerals-.

22 J. NYABIAGE, Why China is making a big play for Congolese cobalt – and other critical minerals, in South China Morning Post, 15 agosto 2021.

23 S. LAWAL, A guide to the decades-long conflict in DR Congo, 21 febbraio 2024, consultato telematicamente su https://www.aljazeera.com/news/2024/2/21/a-guide-to-the-decades-long-conflict-in-dr-congo

24 C. HERNANDEZ-ROY, H. ZIEMER, A. TORO, Mining for Defense: Unlocking the Potential for U.S.- Canada  Collaboration  on  Critical  Minerals,  18  febbraio  2025,  consultato  telamaticamente  su https://www.csis.org/analysis/mining-defense

26 Ibidem.

27 S. LAWAL, Why does DRC want a Ukraine-like minerals deal with Trump, amid conflict?, 17 marzo 2025, consultato telematicamente su https://www.aljazeera.com/news/2025/3/17/amid-conflict-why-does-the-drc- want-a-minerals-deal-with- trump

28 F. NJINI, Explainer: What is at stake for investors in Congo’s election?, cit.

29 E. LIVINGSTONE, Uncertainties Remain With Renegotiated Chinese Mining Deal in DRC, cit.

30 S. ROLLEY, Exclusive: Congo to hike stake in copper, cobalt venture with China, cit.

31 S. RAKOTOSEHENO, Sicomines: How the EITI in DRC helped secure 4 billion in additional revenue, cit.

32 Ibidem.

33 Ibidem.

34 S. ROLLEY, Congo state miner and China’s CMOC reach agreement on royalties, in Reuters, 25 aprile 2023.

35 Ibidem.

36 F. NJINI, Explainer: What is at stake for investors in Congo’s election?, cit.

37 S. ROLLEY, Congo state miner and China’s CMOC reach agreement on royalties, cit.

38 E. LIVINGSTONE, Uncertainties Remain With Renegotiated Chinese Mining Deal in DRC, cit.

39 S. ROLLEY, Chinese companies to invest up to $7 billion in Congo mining infrastructure, cit.

40 F. NJINI, Explainer: What is at stake for investors in Congo’s election?, cit.

41 S. RAKOTOSEHENO, Sicomines: How the EITI in DRC helped secure 4 billion in additional revenue, cit.

42 M.B. RAPANYANE, China’s involvement in the DRC’s mining industry: An Afrocentric critique, in Journal of Public Affairs, 2020, p. 124

43 S. ROLLEY, Congo state miner and China’s CMOC reach agreement on royalties, cit.

44 S. ROLLEY, F. NJINI, China’s CMOC to boost Congo copper output after ending row with Gecamines, in Reuters, 7 settembre 2023.

45 A.L. GULLEY, China, the Democratic Republic of the Congo, and artisanal cobalt mining from 2000 through 2020, in Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A., 120 (26), 20 giugno 2023.

46 H. NAZAR, Chinese Mining in the DRC: From Sicomines to Global Cobalt Monopoly, 27 agosto 2021, consultato telematicamente su https://icsin.org/blogs/2021/08/27/chinese-mining-in-the-drc-from-sicomines- to-global-cobalt-mo­nopoly/.

47 K. STROHECKER, J. DO ROSARIO, Exclusive: Congo sees deal on $6 bln China mining contract overhaul this year -FinMin, in Reuters, 19 gennaio 2023.

48 Ibidem.

49 J. STEARNS, Dancing in the Glory of Monsters, in Public Affairs, 2011, p. 45.

50 J. NYABIAGE, Why China is making a big play for Congolese cobalt – and other critical minerals, cit.

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53 XINHUA, Major China-Africa Infrastructure Cooperation Projects, in ChinaDaily, 26 marzo 2017.

54 B. MAKHURA RAPANYANE, China’s involvement in the DRC’s resource curse mineral-driven conflict: an Afrocentric review, in Journal of Public Affairs, 2021, p. 2.

55 E. NICHOLS, The Resource Curse: A Look into the Implications of an Abundance of Natural Resources in the Democratic Republic of Congo, in Scholarly Horizons: University of Minnesota, Morris Undergraduate Journal: Vol. 5: Iss. 2, Article 6.

56 CHINA CHAMBER OF COMMERCE OF METALS & MINERALS, Guidelines for Social Responsibility in Outbound Mining, 2020, p. 10.

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