sabato, Luglio 27, 2024
Biografie di altrove

L’Ereditiera Che Sfidò I Sovrani

del dott. Armando Gherardi

Indice

Le discriminazioni nel Rinascimento

I suoi vari nomi e l’inizio della sua storia intricata

Dal Portogallo ad Anversa

Filantropia clandestina

Da Anversa a Venezia

Fulmine a ciel sereno

Da Venezia a Ferrara

Altri viaggi, morti e matrimoni

Filantropia ed esaltazione dell’ebraismo

Come finì

Il dopo-Solimano

Giuseppe l’erede

La Guerra di Cipro

Dalle stelle alle stalle

 

23 maggio 1555. Venne proclamato Papa il cardinale Gian Pietro Carafa, con il nome di Paolo IV. Un uomo dogmaticamente rigido, di vita austera, autoritario nei modi, fautore della dottrina Extra Ecclesiam Nulla Salus (nessuna salvezza fuori dalla Chiesa), sostenitore della Santa Inquisizione tanto da rinvigorirne il proposito.

14 luglio 1555. Papa Paolo IV emanò l’editto intitolato Cum Nimis Absurdum (poiché completamente assurdo), nel quale stabiliva le norme per la discriminazione degli Ebrei e degli Ebrei convertiti (segno distintivo, residenza obbligatoria nei ghetti e altre limitazioni nella vita sociale ed economica). Ad Ancona, nello Stato Pontificio, fino a quel punto, gli Ebrei e gli Ebrei convertiti avevano ricevuto un trattamento di favore dal predecessore, Papa Paolo III, che nel 1534 aveva promosso l’attività commerciale di mercanti di qualsiasi confessione, concedendo loro di risiedere e lavorare liberamente; decisione, questa, che avrebbe portato, negli anni, molta prosperità alla città. Con l’editto di Paolo IV, venne anche messa in moto la macchina procedurale dell’Inquisizione romana, con l’invio di un Primo Commissario Pontificio con l’ordine di imprigionare gli Ebrei convertiti, giudicati rei di apostasia, e di estorcere loro con la tortura, pena la morte, una “riconciliazione” con la Chiesa cattolica. Grazie però a informazioni trapelate in anticipo dalla Curia Pontificia, il grosso della comunità ebraica poté riparare altrove. Altri evasero il carcere in maniera più o meno rocambolesca; altri ancora si “riconciliarono” con la fede cattolica. Così rimasero solo ventiquattro uomini ed una donna – che furono torturati, impiccati e bruciati, più o meno tra aprile e giugno 1556.

La vicenda di Ancona aveva avuto grande ed immediata eco in Oriente.Vi erano state pressioni persino dal sultano Solimano il Magnifico che, il 9 marzo 1556, aveva inviato al Papa una lettera di violenta protesta contro i procedimenti in corso, richiedendo ed ottenendo il rilascio di alcuni inquisiti suoi sudditi. Dopo i roghi di Ancona, la comunità ebraica di Costantinopoli decretò l’embargo del porto di Ancona, ottenendo dal sultano il sequestro dei vascelli e delle merci anconetane.

Ma chi poteva esercitare un’influenza così pesante sul sultano Solimano il Magnifico, tanto da esporlo in prima persona in difesa di una manciata di suoi sudditi, tra l’altro, neanche musulmani?

Una donna ebrea, ormai vicina alla soglia dei sessant’anni – tanti per l’epoca… Nell’ultimo periodo della sua vita, la chiamavano Doña Gracia o, con ancora maggior reverenza, la Señora. Fra le carte di Enrico VIII d’Inghilterra, fu trovata una lettera elegante datata 1537 che fa riferimento ad una visita di Doña Gracia oltre Manica. Il suo nome venne anche ritrovato fra le lettere di Nunzi Pontifici in Portogallo. Eppure non era titolare di nessun feudo, non aveva praticamente nessun ruolo ufficiale – si direbbe oggi – pubblico…

Non si può capire come si arrivò a questo punto, senza prima chiarire il contesto storico.

Le discriminazioni nel Rinascimento

Ci spostiamo nella penisola iberica, dove molto – se non tutto – cominciò.

La presenza di popolazioni ebraiche nella penisola iberica viene fatta risalire al II secolo dopo Cristo. Sopravvissero alle invasioni barbariche ma, dal tardo VI secolo in poi, dopo la conversione dei monarchi visigoti al cristianesimo, le condizioni di vita degli Ebrei peggiorarono considerevolmente. Ci volle l’invasione araba della penisola iberica, dall’inizio del VIII secolo, per dar loro una dignità maggiore, sempre e comunque sotto il sistema Dhimmi (per i non-musulmani che vivono sotto protezione legale in un paese islamico). Addirittura gli Ebrei del Al-Andalus (l’odierna Andalusia) si distinsero particolarmente nel X ed XI secolo: studi scientifici e filologici del Talmud iniziarono e poesie non-religiose vennero scritte per la prima volta…

Ma, quando i re cattolici finirono di cacciare gli Arabi dalla Spagna nel 1492, non si esaurì la reconquista cristiana: sull’onda della vittoria, era rimasta l’avversione verso le popolazioni arabe ed ebree ancora presenti sul territorio spagnolo. Fu così che, il 31 marzo 1492, venne emanato il Decreto dell’Alhambra (noto anche come editto o decreto di Granada) dai re cattolici Isabella di Castiglia e Fernando II di Aragona, con il quale, entro la fine di luglio dello stesso anno, si rendeva obbligatoria la conversione alla religione cattolica, mentre disponeva l’espulsione per coloro che non si fossero convertiti – espulsione che, formalmente, non avrebbe consentito loro di portarsi via anche le ricchezze. Il decreto diede luogo alla conversione al cattolicesimo di circa cinquantamila Ebrei, ma approssimativamente centottantamila scelsero di andarsene, andando ad incrementare le comunità ebraiche del Maghreb (soprattutto Marocco ed Algeria, ed in misura minore anche quelle della Tunisia), dell’Impero Ottomano e delle regioni meridionali dell’Europa. Nonostante fossero diventati cattolici, vi era molta diffidenza nei confronti dei conversos (così venivano chiamati gli Ebrei convertiti o, con più disprezzo marranos – in italiano marrani), perché erano in molti a non credere nella loro abiura del giudaismo: in Spagna (e per molti secoli), la limpieza de sangre (purezza di sangue) – cioè il fatto di non discendere da Ebrei, Arabi o Gitani – era un motivo di orgoglio dai Cristiani – salvo poi il fatto di scoprire, da uno studio genetico, che, al giorno d’oggi, circa il 20% della popolazione spagnola discende dai conversos

Nel frattempo, nel vicino Portogallo, regnava Giovanni II di Aviz, detto il Severo o anche il Principe Perfetto. Gli Ebrei che vivevano in Portogallo erano rispettati e non avevano mai avuto motivo di lamentarsi (come ammesso dagli stessi storici di origine ebraica). A seguito dell’espulsione degli Ebrei dalla Spagna del 1492, Giovanni II permise a circa novantamila di loro di entrare in Portogallo e dietro il pagamento di una tassa di otto cruzados pro capite (una somma ingente), permise loro un soggiorno di otto mesi. Il suo successore e cugino, Manuele I, divenne re il 25 ottobre 1495 e cercava moglie per assicurare il proseguimento della dinastia. Nel 1496, Manuele riuscì a vincere la ritrosia alle nozze della principessa Isabella – vedova del suo fratellastro ed ancora traumatizzata dalla morte di suo marito: in cambio però Isabella chiese che tutti gli Ebrei fossero espulsi dal Portogallo. Manuele, che rispettava gli ebrei per le loro capacità, prese tempo, ma alla fine cedette ed emanò un decreto simile a quello spagnolo nel 1497.

È in questo contesto di antisemitismo persecutorio che si inserisce la storia di Doña Gracia

I suoi vari nomi e l’inizio della sua storia intricata

Doña Gracia si chiamava in realtà Gracia Nasí. Nacque a Lisbona il 20 giugno 1510, in una famiglia di conversos spagnoli, originaria di Pamplona. Queste però non sono le generalità con cui venne battezzata perché i conversos – ufficialmente – abbandonavano il loro nome ebraico: per lo Stato e la Chiesa, lei era Beatriz de Luna Miques. In realtà, anche il nome “Gracia” è una traduzione: dall’ebraico “Janna” o “Hanna” – che vuol dire proprio “[dare le] grazie”…

Prima della sua nascita, la famiglia era fuggita dalla Spagna verso il Portogallo, a seguito del Decreto dell’Alhambra. Ma furono costretti alla conversione, cinque anni dopo, quando anche Manuele I di Portogallo emanò un editto simile.

Suo padre, Shmuel Nasí (di nome cristiano Álvaro de Luna Miques), proveniva da una famiglia di alto rango: basti ricordare che Nasí (נָשִׂיא) significa Principe in ebraico antico ed è il titolo dell’attuale Presidente dello Stato di Israele.

Shmuel aveva sposato a Lisbona Felipa Mendes (di cognome ebraico Benveniste), anche lei proveniente da una famiglia di conversos portoghesi, anche loro di origine spagnola. Anche la famiglia Mendes era una ricca ed influente famiglia. I Mendes erano l’equivalente portoghese dei Medici fiorentini: finanziarono le spedizioni di Vasco da Gama in India, che portò loro molta ricchezza dallo sfruttamento di una nuova e più veloce rotta commerciale verso oriente. Finanziarono anche Pedro Álvares Cabral, che diede al Portogallo quasi un intero continente, avendo scoperto il Brasile. Fra tutte le attività commerciali e finanziarie in cui erano coinvolti, i Mendes finanziavano anche i regni di Portogallo, Francia ed il Santo Romano Impero…

Gli Ebrei hanno sempre avuto tendenza a sposarsi fra Ebrei; all’epoca, specialmente nelle famiglie con grandi patrimoni, ci si sposava addirittura in famiglia. Era anche e soprattutto un modo per evitare che il patrimonio, così faticosamente accumulato, si disperdesse in divisioni ereditarie. Certo, per i conversos, serviva il permesso della Chiesa, ma lo si otteneva abbastanza facilmente se si sapeva giustificarne la ragione e, soprattutto, offrire una bustarella sostanziosa a chi di dovere…

Fu così che, nel 1528, all’età di diciott’anni, Beatriz de Luna Miques sposò suo zio materno Francisco Mendes (di nome ebraico Tsemach Benveniste) e, da lì in poi, si fece chiamare Beatriz Mendes.

Per dieci anni, gli affari della famiglia andarono a gonfie vele, anche con l’apporto della giovane ed intelligente Beatriz: oltre al commercio di spezie con le Indie, si aggiunsero il commercio dell’argento (usato per pagare le spezie indiane) ed una proficua attività bancaria.

Nel gennaio 1538, Francisco Mendes morì e, nel suo testamento, aveva diviso il suo patrimonio a metà fra la moglie Beatriz ed il fratello Diogo (di nome ebraico Meir), stipulando anche che lo avrebbero dovuto amministrare congiuntamente. Non era per niente scontato: all’epoca, la vedova generalmente recuperava la sua dote ma non necessariamente ereditava i beni del marito – men che meno la loro amministrarne… La scelta di Francisco è dunque un fatto molto indicativo di chi era Beatriz e di che opinione Francisco aveva di sua moglie.

 

Dal Portogallo ad Anversa

La famiglia Mendes aveva usato il suo denaro e la sua influenza per evitare che anche il Portogallo finisse sotto l’Inquisizione, com’era successo in Spagna, dove l’Inquisizione spagnola – alle dipendenze del sovrano e capeggiata da Tomás de Torquemada – andava, fra l’altro, a scovare quei marrani che si fingevano convertiti ma continuavano clandestinamente a praticare la fede ebraica. Ci riuscirono parzialmente: il 23 maggio 1536, l’Inquisizione raggiunse il Portogallo e l’influenza dei Mendes riuscì solo a ritardarne l’entrata effettiva in operazione.

Il vento dell’antisemitismo soffiava più forte e rimanere in Portogallo non era più raccomandabile… Fu così che i due eredi, Beatriz e Diogo, si trasferirono ad Anversa, dove Diogo aveva dapprima aperto una filiale dell’azienda di famiglia. Beatriz portò con sé sua sorella Brianda de Luna e sua figlia Ana Mendes.

I Portoghesi avevano scelto Anversa come uno dei principali porti per l’accoglienza di spezie dall’Asia in cambio di tessili e beni metallici, espandendosi poi con l’inclusione di tessuti dall’Inghilterra, dall’Italia e dalla Germania e di vini da Francia e Spagna. Vi era anche un’industria manifatturiera e vi erano soprattutto banche che finanziavano il commercio. La città era un centro cosmopolita; la sua borsa aprì nel 1531, come scrivono Gay e Webb nel loro Modern Europe to 1815 (Europa Moderna fino al 1815), “ai mercanti di tutto il mondo”. Per quanto riguardava la questione ebraica, nonostante si trovasse sotto il dominio dell’Imperatore Carlo V, Anversa non dava spazio ai tribunali dell’Inquisizione, consentendo a tanti conversos della cosiddetta Nazione Portoghese di trovare dimora tra le sue mura.

Una volta stabilita ad Anversa, Beatriz si impegnò nell’azienda del cognato, contribuendo così a crearsi una reputazione di donna d’affari, non solo come socia di Diogo ma anche per sé stessa.

Le famiglie de Luna e Mendes rinforzarono i loro legami – già per altro stretti – con il matrimonio fra Diogo Mendes e Brianda: il fratello di Francisco sposava la sorella di Beatriz…

Ma – ironia della sorte – così come capitò al fratello, nel 1547, Diogo venne a mancare, cinque anni dopo il matrimonio, lasciando la vedova Brianda, con una figlia di nome cristiano Beatriz (!) e di nome ebraico Hanna (!!). Nel testamento, Diogo aveva stabilito che Brianda avrebbe ereditato la parte di patrimonio di Diogo ma Beatriz (senior!) sarebbe stata l’amministratrice unica dell’intero impero commerciale e finanziario della famiglia Mendes. Ancora una volta, le capacità di Beatriz erano state riconosciute anche dal cognato. Possiamo immaginare che Brianda non fosse soddisfatta – e l’avrebbe presto fatto sapere…

Filantropia clandestina

Forte del suo impero commerciale e finanziario, Beatriz esercitava influenza su sovrani e persino papi: sono documentate le interazioni che ebbe con Enrico II di Francia, con l’Imperatore Carlo V, con sua sorella Maria d’Austria (Governatrice dei Paesi Bassi), con papa Paolo III… Queste entrature di alto livello erano molte utili per agevolare la vita dei conversos in tutta Europa: alcune di loro venivano utilizzate per consentire a coloro che volevano lasciare l’Europa, cristiana e discriminatrice, di aggirare le leggi sui patrimoni e portare in salvo persone e denari; tutto ciò grazie ad una rete di supporto che aveva organizzato – non solo navi ma anche personale fidato…

La destinazione più popolare era l’Impero Ottomano, dove il sultano, Solimano il Magnifico, accoglieva gli Ebrei a braccia aperte: apprezzava moltissimo la loro competenza professionale, specie nel campo finanziario, dove i Turchi erano un po’ indietro rispetto all’Europa occidentale: la tolleranza dell’Impero Ottomano non era pareggiata dalla competenza in campo bancario, e finanziario in generale. L’Impero – che includeva la Grecia, l’Anatolia, la Siria, l’Egitto – lo si raggiungeva passando da Venezia: grande snodo commerciale piuttosto vicino al territorio Ottomano, dove gli Ebrei godevano della protezione del sultano. Il viaggio però non era una passeggiata: dal’Europa del Nord a Venezia, per sfuggire ai controlli, le Alpi erano traversate a piedi!

Da Anversa a Venezia

Ancora una volta, il vento dell’antisemitismo raggiunse Beatriz ad Anversa.

Le autorità avevano sorvegliato l’attività della rete di supporto, dei traffici bancari per aggirare le norme sull’esportazione dei capitali dei conversos… Poco dopo la morte di Diogo, si aprì un’inchiesta postuma su di lui, con l’accusa di cripto-giudaismo – cioè di essere rimasto in realtà ebreo. Non era un buon segno: se Diogo era defunto, non lo era il resto della famiglia. Ma soprattutto a che serviva un’inchiesta su un defunto? Cosa volevano le autorità? Beatriz capì subito che c’era qualcosa sotto e le fu fatto sapere che l’Imperatore Carlo V aveva bisogno di un prestito senza interessi. Centomila ducati: una somma ingente – abbastanza per armare una flotta o mettere in campo un esercito… L’Imperatore aveva pensato che i suoi fedeli sudditi novelli cristiani fossero disposti ad aiutarlo. L’azienda di Beatriz ce la poteva fare e diede il prestito.

Però Beatriz cominciò a sospettare che la situazione avrebbe portato altri problemi: non voleva esserci quando l’Imperatore avrebbe chiesto un altro prestito… Nel 1544, Beatriz decise di preparare la sua dipartita da Anversa. Non lo dichiarò ufficialmente, così da poter portar via il grosso del suo patrimonio: la versione ufficiale era che la famigliola – Beatriz, Brianda, Ana e Beatriz (junior) – avrebbero trascorso un periodo di ferie alle terme di Aquisgrana. Da Aquisgrana, andarono a Lione. E poi a Venezia.

A quel tempo, a Venezia, gli Ebrei erano accettati purché vivessero nel ghetto – dal 1516; ma Beatriz e le altre erano cristiane e quindi presero in affitto un palazzo sul Canal Grande!

Beatriz non era riuscita a portar via tutto il suo patrimonio, anche perché c’erano degli immobili… Sperava di recuperarne con più tempo almeno una parte ed è per questo che lasciò ad Anversa il nipote João Miques (nome ebraico: Giuseppe Nasí). Questi riuscì a recuperare una parte consistente del patrimonio – certo con favori, raccomandazioni e bustarelle – ed a trasferirlo su una banca di Venezia. Così poi, nel 1546, raggiunse il resto della famiglia.

Un po’ di respiro, finalmente, perché, seppur nel clima antisemita di quei tempi: a Venezia, l’Inquisizione (alle dipendenze della Chiesa, e non del sovrano come in Spagna e Portogallo) non incuteva troppa paura…

Fulmine a ciel sereno

E invece no: fu proprio allora che la sorella Brianda decise di confrontarsi con Beatriz sulla gestione dell’eredità del suo defunto marito Diogo Mendes: le fece causa davanti ai Giudici al Forestier di Venezia, sostenendo che, con la scusa dell’amministrazione del patrimonio, la sorella Beatriz non le consentiva neanche di sapere cosa stava succedendo ai suoi beni. In apparenza, era una comune disputa ereditaria – come ce n’erano state tante nel passato e come ce ne sarebbero state tante nel futuro – ed i giudici pendevano un po’ dalla parte di Brianda…. Ma, aldilà dell’entità del patrimonio, c’era anche un altro aspetto peculiare: l’influenza economico-finanziaria – e quindi politica – di Beatriz Mendes.

Alla fine di lunghe trattative, Beatriz acconsentì a depositare metà di tutto il patrimonio al Tesoro veneziano, sostanzialmente a nome della figlia di Brianda, Beatriz, che avrebbe potuto ottenerne accesso al compimento del diciottesimo anno di età. C’era evidentemente qualcosa in Brianda che spinse il negoziato verso quest’approccio, un po’ particolare, che includeva anche la dote di Brianda (quella le spettava di diritto, dopo il decesso di Diogo) e le spese per l’educazione di sua figlia Beatriz.

Da Venezia a Ferrara

Il vento dell’antisemitismo però non si era mai fermato e, nel 1550, raggiunse Venezia: anche la Serenissima si allineò con molti altri paesi della cristianità nell’espellere i conversos. Beatriz, che, grazie alle sue relazioni, era stata messa a conoscenza in anticipo, si preparò e scovò un’altra città italiana disposta ad accogliere la famiglia: Ferrara.

In quel tempo, Ferrara era governata dal duca Ercole II d’Este con sua moglie Renata di Francia. Renata non era cattolica ma protestante, parte di quella folta schiera di nobili francesi calvinisti: a Ferrara, l’Inquisizione del Papa non arrivava.

A Ferrara, fu persino possibile fare qualcosa che, in molti paesi cattolici di allora, era impensabile: ritornare all’ebraismo. Lo fece Beatriz Mendes, anche praticando l’ebraismo e facendosi chiamare pubblicamente (per la prima volta nella sua vita) Gracia Nasí. In poco tempo, diventò uno dei personaggi più importanti della comunità ebraica di Ferrara. A sue spese, fece tradurre e pubblicare il Talmud ebraico tradotto in spagnolo: un’edizione per il duca ed una per lei!

Non durò a lungo. Il duca Ercole II cominciò a ricevere pressioni da tutti: dall’Imperatore, dal Papa… Intervenne anche Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti… Il duca resistette abbastanza a lungo ma poi dovette cedere: cominciò a far capire alla sua consorte che una principessa protestante non poteva regnare su un ducato in Italia. E fu così che sua moglie finì col convertirsi al cattolicesimo…

Altri viaggi, morti e matrimoni…

E Gracia Nasí decise allora che era tempo di trasferirsi a Costantinopoli. Ma c’erano due intoppi: Brianda non ne voleva sapere e bisognava anche recuperare i soldi lasciati al Tesoro veneziano: metà del patrimonio trasferito da Anversa!

Ed allora, ad ulteriore dimostrazione della sua influenza sui regnanti dell’epoca, Doña Gracia contattò ancora una volta il sultano Solimano il Magnifico. Gli comunicò che aveva intenzione di stabilirsi a Costantinopoli con la famiglia e di trasferirvi tutti i suoi affari, e gli chiese perciò di intercedere presso le autorità della Serenissima per sbloccare il capitale depositato presso il suo Tesoro. Ed il governo dell’Impero Ottomano iniziò ad intraprendere negoziati con la Repubblica di Venezia. Bisogna capire che l’Impero Ottomano era – si direbbe oggi – un partner commerciale strategico per i Veneziani: era la porta d’ingresso per i commerci con l’Oriente. Questo, Doña Gracia lo sapeva benissimo: è per questo che era sicura che l’aiuto del sultano avrebbe avuto successo. Ed infatti, alla fine, si giunse ad un accordo: Doña Gracia recuperò gran parte del capitale depositato, lasciando “solo” centomila ducati (una cifra ricorrente…) depositati a favore della nipote Beatriz, che avrebbe potuto ritirare a compimento del quindicesimo anno di età – al momento ne aveva tredici. Finalmente, nell’agosto del 1552, dopo che l’accordo fu siglato, l’inviato del Sultano scortò Doña Gracia e sua figlia – che nel frattempo aveva ripreso il suo nome ebraico di Reina Benveniste – fuori da Venezia verso Costantinopoli. Brianda tornò a Venezia con sua figlia, in attesa di veder sbloccati i centomila ducati.

Si può facilmente imaginare l’atteggiamento dei patrizi veneziani – quelli che avevano figli maschi in età da matrimonio – nei confronti delle due donne, in particolare della giovane Beatriz, virtualmente titolare di una piccola fortuna (la stessa cifra del prestito infruttifero dall’Imperatore Carlo V!)… E quindi, per cercare di risolvere questa situazione, nel 1553, intervenne ancora una volta João Miques: con l’aiuto di suo fratello Bernardo, rapì Beatriz e la sposò. Non si sa se Doña Gracia fosse al corrente… Ma non funzionò: Brianda fece causa. Dopo varie vicissitudini, Beatriz fu riportata a Venezia, dove il matrimonio venne dichiarato nullo e, da allora, João fu bandito dal rientrare nei territori della Repubblica Serenissima – pena la morte.

Due anni dopo, la giovane Beatriz prese possesso del suo capitale e, curiosamente, le autorità veneziane si “accorsero” che la famiglia praticava il cripto-giudaismo: madre e figlia furono quindi espulse da Venezia e tornarono a Ferrara – dove ripresero i loro nomi ebraici di (Doña) Reina per Brianda e Gracia Benveniste per Beatriz. Reina (Brianda) morì subito dopo aver raggiunto Ferrara e la figlia dovette trasferirsi a Costantinopoli, raggiungendo l’omonima zia, Doña Gracia, e la cuginetta.

Nell’aprile del 1554, anche João e Bernardo raggiunsero la famiglia a Costantinopoli. Si fecero circoncidere e ripresero il loro nome ebraico di Giuseppe Nasí per João e Samuel Nasí per Bernardo. Attorno al mese di giugno seguente, Giuseppe sposò la figlia di Doña Gracia – Ana, che aveva ripreso il suo nome ebraico di Reina Benveniste. Non risulta nessun riferimento al precedente matrimonio (che era ufficialmente annullato)…

Più tardi, nel 1559, dopo altri viaggi e varie vicissitudini, Samuel (Bernardo) avrebbe sposato Gracia Benveniste (la giovane Beatriz) ormai diciottenne. Anche qui nessun riferimento al precedente matrimonio (annullato) del 1553 di Gracia con Giuseppe…

E, nell’estate del 1559, tutta la famiglia si ritrovò definitivamente riunita a Costantinopoli, assieme a tutto il loro capitale.

Filantropia ed esaltazione dell’ebraismo

L’attività imprenditoriale della famiglia Nasí-Benveniste, operante da Costantinopoli, era la più grande impresa finanziaria di tutto l’impero ottomano. Doña Gracia si limitava sempre di più a sorvegliare l’operato dei giovani, registrando ingenti profitti e continuando anche la sua opera di aiuto agli Ebrei ed ai conversos in tutta Europa. Continuava a farlo grazie all’influenza datagli dalla potenza finanziaria: è in quell’epoca che si colloca, per esempio, l’embargo del porto di Ancona, dopo i roghi, ed il conseguente il sequestro dei vascelli e delle merci anconetane da parte delle autorità ottomane…

La sua attività filantropica si estese oltre l’aiuto agli Ebrei rimasti in Europa: cominciava ad includere l’istituzione ed il finanziamento di sinagoghe – come quella detta de la Señora a Costantinopoli, scuole rabbiniche, ospedali ebraici… Nel 1558, Doña Gracia chiese ed ottenne dal sultano Solimano il Magnifico l’affitto di un pezzo di terra santa: la regione di Tiberiade, dove ci sono ancora le rovine dell’antica città romana – all’epoca parte della Siria Ottomana. Era una terra desolata ed non vi abitavano ebrei da secoli. Il Sultano le permise di governare quell’area – recentemente integrata nell’Impero – e di ricostruire i villaggi abbandonati, che venivano preparati per i profughi ebrei e conversos che desideravano stabilirvisi. Fu uno dei primi esempi di sionismo ante litteram.

Gli insediamenti funzionarono per un po’ ma non durarono a lungo: gli Ebrei ed i conversos che scappavano dall’Europa erano commercianti, professionisti… Non trovarono in quella zona un terreno fertile per le loro attività e le loro capacità…

Come finì

Il dopo-Solimano

Il 6 settembre 1566, Solimano il Magnifico morì durante l’assedio della città ungherese di Szigetvár e gli succedette Selim II, detto “il Biondo” (o anche “l’Ubriacone” dai suoi contestatori).

Selim II era giovane ed ambizioso, con un evidente complesso di inferiorità verso suo padre. Era anche omosessuale ed alcolizzato, fatti che politicamente lo indebolivano nei confronti del clero e degli Arabi: aveva bisogno di una rapida campagna vittoriosa per risollevare le sorti del suo regno e non riusciva ad ottenere grandi vittorie nelle pianure ungheresi, a pochi chilometri da Costantinopoli. Era riuscito soltanto a deporre l’ultimo Duca dell’Arcipelago (delle Cicladi, nel mar Egeo), Jacopo IV Crispo, vassallo della Repubblica di Venezia.

Quindi, affidato il controllo degli affari di stato al Gran Visir Sokollu Mehmet Paşa, era riuscito a concludere nel 1568 con l’imperatore Massimiliano II la vantaggiosa pace di Adrianopoli. Assicuratosi così il controllo dei Balcani, il sultano fu libero di rivolgere la propria attenzione su Cipro. L’isola di Cipro, già possedimento bizantino, faceva parte del dominio di Venezia dal 1480 e, per essa, veniva pagato all’Impero Ottomano un tributo annuo di ottomila ducati. Il sultano si sentì dunque legittimato a rivendicarne il controllo, giovandosi, fra l’altro, del favore con cui auspicava sarebbe stata accolta la dominazione turca dalla popolazione locale, che rimproverava ai Veneziani un’eccessiva ingerenza ed uno sfruttamento troppo duro. Si stava preparando la guerra di Cipro – o quarta guerra turco-veneziana…

Nel 1569, a quasi sessant’anni, Doña Gracia si ammalò e morì il 3 novembre. Giuseppe Nasí prese la guida dell’azienda.

Giuseppe l’erede

Già dal suo arrivo a Costantinopoli – o poco dopo – Giuseppe ebbe la brillante idea di favorire il futuro sultano Selim II contro il suo rivale Bayezid: fu ricompensato con alte cariche diplomatiche e divenne per un periodo anche ministro. Grazie alle entrature alto locate – sue proprie e quelle ereditate da Doña Gracia – poteva esercitare una grande influenza sulla politica estera dell’Impero. Fra i suoi successi, si annovera la pace con la Confederazione Polacco-Lituana che gli garantì, da parte del sultano, la concessione del monopolio sul commercio della cera d’api con la Polonia e del vino con la Moldavia. Inoltre, grazie ai suoi contatti con Guglielmo I d’Orange, Giuseppe Nasí ebbe un ruolo determinante nel provocare la Guerra Degli Ottant’anni tra i ribelli olandesi e la Spagna: un conflitto che indebolì ed occupò enormemente la potenza spagnola a vantaggio dell’Impero Ottomano. Per questo ed altri risultati, Giuseppe Nasí fu nominato Duca di Naxos: era l’arcipelago delle Cicladi, fra i primi successi di Selim II !

I Veneziani svilupparono una vera e propria psicosi nei confronti di Giuseppe Nasí.

L’ambasciatore della Serenissima a Costantinopoli, Marcantonio Barbaro, nelle suoi frequenti e lunghi rapporti informativi a Venezia sulla situazione, cristallizzava l’ossessione di scovare ed riferire su cosa stesse facendo o pensando Giuseppe Nasí:

Giovanni Miches, che al presente si chiama Don Joseph Nasí,

(…) essendo lui capo di tutta la nazione sua (…)

avendo intelligentia in ogni loco (…)

Quest’ossessione era parzialmente spiegata dalla concorrenza fra mercanti veneziani e mercanti ebrei e dall’obbligo per i mercanti veneziani di usare intermediari ebrei per fare commercio nell’Impero Ottomano. La situazione geopolitica – si direbbe oggi – era tesissima: nonostante, come già accennato, l’Impero Ottomano fosse un partner cruciale per Venezia, sette guerre sarebbero combattute fra i due stati nell’arco di tre secoli. Quella che stava per iniziare era la quarta…

 

La Guerra di Cipro

La Guerra di Cipro cominciò bene per Nasí: sfruttò i suoi contatti tra gli ebrei di Cipro per interferire attivamente nel conflitto diplomatico tra Venezia ed Istanbul, che sarebbe maturato poi nella guerra. E pare che sarebbero stati i complotti di Giuseppe Nasí a provocare l’espulsione dall’isola degli Ebrei di Famagosta (città di Cipro) nel 1568; mentre Marrano Righetto, arrestato nel 1570 per aver tentato d’incendiare l’Arsenale di Venezia, era un suo parente… La guerra finì bene per i Turchi: i negoziati di pace durarono oltre tre mesi e furono condotti dal Gran Visir Sokollu Mehmet Paşa e l’ambasciatore Marcantonio Barbaro. Alla fine, il 7 marzo 1573, venne firmato a Costantinopoli il trattato di pace tra Venezia e l’Impero ottomano: Venezia rinunciava al possesso di Cipro ed avrebbe dovuto pagare un tributo tra i mille ed i millecinquecento ducati per il possesso di Zante, oltre ad un indennizzo di guerra pari a trecentomila ducati.

Purtroppo, però, la sconfitta patita dalle forze ottomane nella battaglia di Lepanto – sebbene ininfluente sull’esito della Guerra di Cipro – fu l’inizi della fine per Giuseppe Nasí. Perso lo scontro con la fazione a lui avversa, capeggiata dal Gran Visir Sokollu Mehmet Paşa, venne meno anche il favore del sultano. Giuseppe trascorse i suoi ultimi anni ricco, ma ininfluente.

 

Dalle stelle alle stalle

Alla sua morte nel 1579, il sultano Murad III – successore di Selim II – espropriò tutti i beni della famiglia Nasí, ad eccezione della dote della moglie Reina Nasí – la figlia di Doña Gracia – del valore di novantamila dinari.

L’unico pezzo di quello che fu “la più grande impresa finanziaria di tutto l’impero ottomano”, rimasto a Reina Nasí, era una stamperia ebraica in un sobborgo di Costantinopoli.

Sic transit gloria mundi.

 

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